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Dissertations / Theses on the topic 'STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE'

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Vitillo, Giacomo <1995&gt. "La storia delle idee dell'Europa." Master's Degree Thesis, Università Ca' Foscari Venezia, 2020. http://hdl.handle.net/10579/16980.

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Abstract:
La mia tesi tenta di indagare le cause dell'attuale crisi europea. Per fare ciò si ripercorre nel primo capitolo la storia delle idee storico-filosofiche che hanno contribuito al processo di integrazione europea. Nel secondo capitolo si indagano invece le critiche che tale processo ha subito durante il suo sviluppo. Nell'ultimo capitolo si tenta di comparare le conclusioni raggiunte nel primo e nel secondo, in relazioni alle attuali crisi. Così facendo si tenta di indagare le problematiche di oggi alla luce del passato.
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Udrescu, Claudia Maria <1966&gt. "Politica nell'università. Politiche dell'università. Studio di caso: Università di Bucarest e Università di Bologna." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2010. http://amsdottorato.unibo.it/3160/1/Claudia_Udrescu_Tesi.pdf.

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Abstract:
La mia tesi analizza il modo in cui è costruito il rapporto tra università e politica, con particolare sguardo sulle Università di Bucarest e di Bologna. E una ricerca empirica che si propone da una parte di fare una radiografia esatta della formulazione delle politiche dello stato in materia d’istruzione superiore, e dall’altro lato, di vedere la maniera in cui si sviluppa l’organizzazione interna delle università romene, prendendo come caso concreto l’Università di Bucarest. L’interesse per questo argomento è stato determinato dal fatto che la politica dell’educazione rappresenta una politica chiave nella ricostruzione dello stato democratico romeno dopo dicembre 1989. In secondo luogo l’intento di approfondire questo tema parte dal fatto che in Romania mancano degli studi consistenti sul percorso dell’università durante la transizione post communista, studi fatti nella prospettiva della scienza politica. In terzo luogo l’educazione è da sempre un argomento con portata politica. La tesi è articolata in tre parti, fondamentali per la comprehensione del rapporto tra politica è università: Università, Elites politiche e università, Stato e università. L’ipotesi è che l’educazione rappresenta un mezzo di legitimazzione per la politica, oppure, la carriera universitaria è un mezzo di legitimazzione per la carriera politica. Da qui deriva il fatto che l’università si constituisce in una fonte di reclutamento per i partiti politici e che in Romania le università private sono create per facilitare uno scambio di capitale, con lo scopo di facilitare il passaggio dal mondo politico verso il mondo accademico. Dal punto di vista metodologico, sono state utilizzate le fonti seguenti: archivio dell’università di Bucarest, fondo senato, periodo 1989-2004; archivio della Camera dei Deputati della Romania; l’archivio della Commisione per l’Insegnamento, la scienza e la gioventù della Camera dei Deputati e interviste semi-direttive con ex ministri dell’istruzione, consiglieri della Commisione per l’Insegnamento della Camera dei Deputati e altri politici. Inoltre, per il caso romeno è stata realizzata una banca dati con i membri del Parlamento romeno 1989-2008, per un totale di 2737 parlamentari, con lo scopo di realizzare il profilo educazionale dell’elite parlamentare nel post communismo. Nel periodo che abbiamo investigato, l’università si definisce attraverso il suo posizionamento verso il passato, da una parte perchè non esiste una politica dell’università romena che abbiamo incluso nello studio di caso, ma ci sono dei tentativi di conquistare i dirittti degli universitari, e dall’altra perchè il cambiamento dell’università è blocatto da routines di tipo burocratico. La relazione tra il mondo accademico e il mondo politico si costruisce a livello di cariera in un senso doppio: dal mondo accademico verso il mondo politico nello spirito della tradizione interbellica romena e dal mondo politico verso il mondo accademico, la cui comprensione è facilitata dal paragone con il caso italiano. Per la terza parte dello studio, possiamo osservare che lo stato è molto presente nello spazio educativo, fatto che rende difficile la negociazzione di una pertinente definizione dell’autonomia universitaria.
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Udrescu, Claudia Maria <1966&gt. "Politica nell'università. Politiche dell'università. Studio di caso: Università di Bucarest e Università di Bologna." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2010. http://amsdottorato.unibo.it/3160/.

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Abstract:
La mia tesi analizza il modo in cui è costruito il rapporto tra università e politica, con particolare sguardo sulle Università di Bucarest e di Bologna. E una ricerca empirica che si propone da una parte di fare una radiografia esatta della formulazione delle politiche dello stato in materia d’istruzione superiore, e dall’altro lato, di vedere la maniera in cui si sviluppa l’organizzazione interna delle università romene, prendendo come caso concreto l’Università di Bucarest. L’interesse per questo argomento è stato determinato dal fatto che la politica dell’educazione rappresenta una politica chiave nella ricostruzione dello stato democratico romeno dopo dicembre 1989. In secondo luogo l’intento di approfondire questo tema parte dal fatto che in Romania mancano degli studi consistenti sul percorso dell’università durante la transizione post communista, studi fatti nella prospettiva della scienza politica. In terzo luogo l’educazione è da sempre un argomento con portata politica. La tesi è articolata in tre parti, fondamentali per la comprehensione del rapporto tra politica è università: Università, Elites politiche e università, Stato e università. L’ipotesi è che l’educazione rappresenta un mezzo di legitimazzione per la politica, oppure, la carriera universitaria è un mezzo di legitimazzione per la carriera politica. Da qui deriva il fatto che l’università si constituisce in una fonte di reclutamento per i partiti politici e che in Romania le università private sono create per facilitare uno scambio di capitale, con lo scopo di facilitare il passaggio dal mondo politico verso il mondo accademico. Dal punto di vista metodologico, sono state utilizzate le fonti seguenti: archivio dell’università di Bucarest, fondo senato, periodo 1989-2004; archivio della Camera dei Deputati della Romania; l’archivio della Commisione per l’Insegnamento, la scienza e la gioventù della Camera dei Deputati e interviste semi-direttive con ex ministri dell’istruzione, consiglieri della Commisione per l’Insegnamento della Camera dei Deputati e altri politici. Inoltre, per il caso romeno è stata realizzata una banca dati con i membri del Parlamento romeno 1989-2008, per un totale di 2737 parlamentari, con lo scopo di realizzare il profilo educazionale dell’elite parlamentare nel post communismo. Nel periodo che abbiamo investigato, l’università si definisce attraverso il suo posizionamento verso il passato, da una parte perchè non esiste una politica dell’università romena che abbiamo incluso nello studio di caso, ma ci sono dei tentativi di conquistare i dirittti degli universitari, e dall’altra perchè il cambiamento dell’università è blocatto da routines di tipo burocratico. La relazione tra il mondo accademico e il mondo politico si costruisce a livello di cariera in un senso doppio: dal mondo accademico verso il mondo politico nello spirito della tradizione interbellica romena e dal mondo politico verso il mondo accademico, la cui comprensione è facilitata dal paragone con il caso italiano. Per la terza parte dello studio, possiamo osservare che lo stato è molto presente nello spazio educativo, fatto che rende difficile la negociazzione di una pertinente definizione dell’autonomia universitaria.
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Brighenti, Maura <1979&gt. "L'orizzonte della nazione. Dottrine politiche e scienze sociali in Argentina (1830-1880)." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2009. http://amsdottorato.unibo.it/2083/1/Brighenti_Maura_tesi.pdf.

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Brighenti, Maura <1979&gt. "L'orizzonte della nazione. Dottrine politiche e scienze sociali in Argentina (1830-1880)." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2009. http://amsdottorato.unibo.it/2083/.

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Filippini, Michele <1980&gt. "Una filologia della società. Antonio Gramsci e la scoperta delle scienze sociali nella crisi dell'ordine liberale." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2008. http://amsdottorato.unibo.it/820/1/Tesi_Filippini_Michele.pdf.

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Abstract:
Questa tesi di dottorato ha per suo oggetto la ricognizione degli elementi teorici, di linguaggio politico e di influenza concettuale che le scienze sociali tra Ottocento e Novecento hanno avuto nell’opera di Antonio Gramsci. La ricerca si articola in cinque capitoli, ciascuno dei quali intende ricostruire, da una parte, la ricezione gramsciana dei testi classici della sociologia e della scienza politica del suo tempo, dall’altra, far emergere quelle filiazioni concettuali che permettano di valutare la portata dell’influenza delle scienze sociali sugli scritti gramsciani. Il lungo processo di sedimentazione concettuale del lessico delle scienze sociali inizia in Gramsci già negli anni della formazione politica, sullo sfondo di una Torino positivista che esprime le punte più avanzate del “progetto grande borghese” per lo studio scientifico della società e per la sua “organizzazione disciplinata”; di questa tradizione culturale Gramsci incrocia a più riprese il percorso. La sua formazione più propriamente politica si svolge però all’interno del Partito socialista, ancora imbevuto del lessico positivista ed evoluzionista. Questi due grandi filoni culturali costituiscono il brodo di coltura, rifiutato politicamente ma al tempo stesso assunto concettualmente, per quelle suggestioni sociologiche che Gramsci metterà a frutto in modo più organico nei Quaderni. La ricerca e la fissazione di una specifica antropologia politica implicita al discorso gramsciano è il secondo stadio della ricerca, nella direzione di un’articolazione complessiva delle suggestioni sociologiche che i Quaderni assumono come elementi di analisi politica. L’analisi si sposta sulla storia intellettuale della Francia della Terza Repubblica, più precisamente sulla nascita del paradigma sociologico durkheimiano come espressione diretta delle necessità di integrazione sociale. Vengono così messe in risalto alcune assonanze lessicali e concettuali tra il discorso di Durkheim, di Sorel e quello di Gramsci. Con il terzo capitolo si entra più in profondità nella struttura concettuale che caratterizza il laboratorio dei Quaderni. Si ricostruisce la genesi di concetti come «blocco storico», «ideologia» ed «egemonia» per farne risaltare quelle componenti che rimandano direttamente alle funzioni di integrazione di un sistema sociale. La declinazione gramsciana di questo problema prende le forme di un discorso sull’«organicità» che rende più che mai esplicito il suo debito teorico nei confronti dell’orizzonte concettuale delle scienze sociali. Il nucleo di problemi connessi a questa trattazione fa anche emergere l’assunzione di un vero e proprio lessico sociologico, come per i concetti di «conformismo» e «coercizione», comunque molto distante dallo spazio semantico proprio del marxismo contemporaneo a Gramsci. Nel quarto capitolo si affronta un caso paradigmatico per quanto riguarda l’assunzione non solo del lessico e dei concetti delle scienze sociali, ma anche dei temi e delle modalità della ricerca sociale. Il quaderno 22 intitolato Americanismo e fordismo è il termine di paragone rispetto alla realtà che Gramsci si prefigge di indagare. Le consonanze delle analisi gramsciane con quelle weberiane dei saggi su Selezione e adattamento forniscono poi gli spunti necessari per valutare le novità emerse negli Stati Uniti con la razionalizzazione produttiva taylorista, specialmente in quella sua parte che riguarda la pervasività delle tecniche di controllo della vita extra-lavorativa degli operai. L’ultimo capitolo affronta direttamente la questione delle aporie che la ricezione della teoria sociologica di Weber e la scienza politica italiana rappresentata dagli elitisti Mosca, Pareto e Michels, sollevano per la riformulazione dei concetti politici gramsciani. L’orizzonte problematico in cui si inserisce questa ricerca è l’individuazione di una possibile “sociologia del politico” gramsciana che metta a tema quel rapporto, che è sempre stato di difficile composizione, tra marxismo e scienze sociali.
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Filippini, Michele <1980&gt. "Una filologia della società. Antonio Gramsci e la scoperta delle scienze sociali nella crisi dell'ordine liberale." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2008. http://amsdottorato.unibo.it/820/.

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Abstract:
Questa tesi di dottorato ha per suo oggetto la ricognizione degli elementi teorici, di linguaggio politico e di influenza concettuale che le scienze sociali tra Ottocento e Novecento hanno avuto nell’opera di Antonio Gramsci. La ricerca si articola in cinque capitoli, ciascuno dei quali intende ricostruire, da una parte, la ricezione gramsciana dei testi classici della sociologia e della scienza politica del suo tempo, dall’altra, far emergere quelle filiazioni concettuali che permettano di valutare la portata dell’influenza delle scienze sociali sugli scritti gramsciani. Il lungo processo di sedimentazione concettuale del lessico delle scienze sociali inizia in Gramsci già negli anni della formazione politica, sullo sfondo di una Torino positivista che esprime le punte più avanzate del “progetto grande borghese” per lo studio scientifico della società e per la sua “organizzazione disciplinata”; di questa tradizione culturale Gramsci incrocia a più riprese il percorso. La sua formazione più propriamente politica si svolge però all’interno del Partito socialista, ancora imbevuto del lessico positivista ed evoluzionista. Questi due grandi filoni culturali costituiscono il brodo di coltura, rifiutato politicamente ma al tempo stesso assunto concettualmente, per quelle suggestioni sociologiche che Gramsci metterà a frutto in modo più organico nei Quaderni. La ricerca e la fissazione di una specifica antropologia politica implicita al discorso gramsciano è il secondo stadio della ricerca, nella direzione di un’articolazione complessiva delle suggestioni sociologiche che i Quaderni assumono come elementi di analisi politica. L’analisi si sposta sulla storia intellettuale della Francia della Terza Repubblica, più precisamente sulla nascita del paradigma sociologico durkheimiano come espressione diretta delle necessità di integrazione sociale. Vengono così messe in risalto alcune assonanze lessicali e concettuali tra il discorso di Durkheim, di Sorel e quello di Gramsci. Con il terzo capitolo si entra più in profondità nella struttura concettuale che caratterizza il laboratorio dei Quaderni. Si ricostruisce la genesi di concetti come «blocco storico», «ideologia» ed «egemonia» per farne risaltare quelle componenti che rimandano direttamente alle funzioni di integrazione di un sistema sociale. La declinazione gramsciana di questo problema prende le forme di un discorso sull’«organicità» che rende più che mai esplicito il suo debito teorico nei confronti dell’orizzonte concettuale delle scienze sociali. Il nucleo di problemi connessi a questa trattazione fa anche emergere l’assunzione di un vero e proprio lessico sociologico, come per i concetti di «conformismo» e «coercizione», comunque molto distante dallo spazio semantico proprio del marxismo contemporaneo a Gramsci. Nel quarto capitolo si affronta un caso paradigmatico per quanto riguarda l’assunzione non solo del lessico e dei concetti delle scienze sociali, ma anche dei temi e delle modalità della ricerca sociale. Il quaderno 22 intitolato Americanismo e fordismo è il termine di paragone rispetto alla realtà che Gramsci si prefigge di indagare. Le consonanze delle analisi gramsciane con quelle weberiane dei saggi su Selezione e adattamento forniscono poi gli spunti necessari per valutare le novità emerse negli Stati Uniti con la razionalizzazione produttiva taylorista, specialmente in quella sua parte che riguarda la pervasività delle tecniche di controllo della vita extra-lavorativa degli operai. L’ultimo capitolo affronta direttamente la questione delle aporie che la ricezione della teoria sociologica di Weber e la scienza politica italiana rappresentata dagli elitisti Mosca, Pareto e Michels, sollevano per la riformulazione dei concetti politici gramsciani. L’orizzonte problematico in cui si inserisce questa ricerca è l’individuazione di una possibile “sociologia del politico” gramsciana che metta a tema quel rapporto, che è sempre stato di difficile composizione, tra marxismo e scienze sociali.
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De, Ligio Giulio <1982&gt. "Il ritorno del politico e delle sue ombre. Un "momento" dello spirito europeo nel recente dibattito francese." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2010. http://amsdottorato.unibo.it/3125/1/Deligio_Giulio_tesi.pdf.

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De, Ligio Giulio <1982&gt. "Il ritorno del politico e delle sue ombre. Un "momento" dello spirito europeo nel recente dibattito francese." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2010. http://amsdottorato.unibo.it/3125/.

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Cappuccilli, Eleonora <1987&gt. "Tra Dio e la sfera pubblica. Mary Astell nella storia costituzionale inglese." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2016. http://amsdottorato.unibo.it/7610/1/Cappuccilli_Eleonora_Tesi.pdf.

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Abstract:
La tesi ricostruisce la vita e la dottrina politica di Mary Astell (1666-1731), pensatrice politica, filosofa e teologa inglese. La sua riflessione costituisce un capitolo essenziale ma poco esplorato della storia costituzionale e del pensiero politico inglese. Malgrado il suo conservatorismo anglicano, Astell incarna una critica proto-femminista al patriarcato. Questa critica, pur essendo specialmente affilata nel pensiero di Astell, è condivisa, al netto di alcune significative differenze, anche da altre importanti pensatrici tra metà Seicento e inizio Settecento. Essa è definita come antipatriarcalismo materiale, in quanto mette in discussione i rapporti materiali di potere tra i sessi e si oppone all'antipatriarcalismo formale di Locke. L'antipatriarcalismo materiale si lega all'irruzione femminile nella sfera pubblica in formazione, durante la grande ribellione degli anni Quaranta del Seicento, che è contestuale allo sviluppo di una agency femminile in campo economico e giuridico. Insieme al dibattito politico-religioso, dunque, si considerano i trattati giuridici, i manuali di condotta, le petizioni e le profezie femminili del secolo delle Rivoluzioni, al fine di ricostruire il contesto giuridico e sociale a cui appartengono Astell e le altre donne “straordinarie” del tempo. In questo scenario Astell elabora la sua teologia politica, che implica una critica delle politiche di tolleranza e del tentativo dei dissenzienti e dei whig di riscrittura della storia. Astell teorizza la necessità dell'ordine politico, laddove tutto il potere è nelle mani di Dio e del re, Suo vicario sulla terra. L'autorità divina assoluta consente di pensare un'eguaglianza radicale delle anime davanti a Dio, condizione che rende la subordinazione delle donne agli uomini impossibile da sostenere. Questa rivendicazione dell’uguaglianza delle donne emerge con forza nel dibattito sull'educazione, in cui Astell interviene proponendo la creazione di un ritiro filosofico-religioso femminile che inauguri una sfera pubblica separata in grado di preparare le donne ad affrontare la società degli uomini.
The thesis investigates the life and political thought of Mary Astell (1666-1731), English political thinker, philosopher and theologian. Her reflections constitute an essential but rather unexplored chapter of English political thought and Constitutional History. Despite her Anglican Toryism, she embodies a proto-feminist critique to early modern patriarchy. While this critique is most consistently advanced by Astell, it is shared, notwithstanding some significant differences, by other outstanding female thinkers of the Century of Revolution. It can be defined as material antipatriarchalism, insofar as it questions the material power relations between the sexes and opposes the formal antipatriarchalism of Locke. Material antipatriarchalism is strictly linked to the female irruption into the emerging public sphere during the great rebellion of 1640s, which concurs with women's economic and legal agency. Therefore, together with the political and religious debate, legal treatises, conduct books, female petitions and prophecies of XVII and early XVIII century are taken into account in order to reconstruct the judicial and social context to which Astell belongs. Against this backdrop Astell elaborates her own political theology, which entails a critique of toleration policies and of the dissenters' and Whigs' attempt to reinterpret the English past. Astell theorizes the necessity of political order, whereby all power is held by God and the King, His vicar on earth. Absolute divine authority, in turn, paves the way to the radical equality of all souls in front of God, a condition that makes women's subordination to men unsustainable. The claim to women's equality is strongly reflected in the educational debate, where Astell intervenes proposing the creation of a philosophical-religious retirement that should lead to a separate public sphere able to prepare women to confront the male-run society.
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Cappuccilli, Eleonora <1987&gt. "Tra Dio e la sfera pubblica. Mary Astell nella storia costituzionale inglese." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2016. http://amsdottorato.unibo.it/7610/.

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Abstract:
La tesi ricostruisce la vita e la dottrina politica di Mary Astell (1666-1731), pensatrice politica, filosofa e teologa inglese. La sua riflessione costituisce un capitolo essenziale ma poco esplorato della storia costituzionale e del pensiero politico inglese. Malgrado il suo conservatorismo anglicano, Astell incarna una critica proto-femminista al patriarcato. Questa critica, pur essendo specialmente affilata nel pensiero di Astell, è condivisa, al netto di alcune significative differenze, anche da altre importanti pensatrici tra metà Seicento e inizio Settecento. Essa è definita come antipatriarcalismo materiale, in quanto mette in discussione i rapporti materiali di potere tra i sessi e si oppone all'antipatriarcalismo formale di Locke. L'antipatriarcalismo materiale si lega all'irruzione femminile nella sfera pubblica in formazione, durante la grande ribellione degli anni Quaranta del Seicento, che è contestuale allo sviluppo di una agency femminile in campo economico e giuridico. Insieme al dibattito politico-religioso, dunque, si considerano i trattati giuridici, i manuali di condotta, le petizioni e le profezie femminili del secolo delle Rivoluzioni, al fine di ricostruire il contesto giuridico e sociale a cui appartengono Astell e le altre donne “straordinarie” del tempo. In questo scenario Astell elabora la sua teologia politica, che implica una critica delle politiche di tolleranza e del tentativo dei dissenzienti e dei whig di riscrittura della storia. Astell teorizza la necessità dell'ordine politico, laddove tutto il potere è nelle mani di Dio e del re, Suo vicario sulla terra. L'autorità divina assoluta consente di pensare un'eguaglianza radicale delle anime davanti a Dio, condizione che rende la subordinazione delle donne agli uomini impossibile da sostenere. Questa rivendicazione dell’uguaglianza delle donne emerge con forza nel dibattito sull'educazione, in cui Astell interviene proponendo la creazione di un ritiro filosofico-religioso femminile che inauguri una sfera pubblica separata in grado di preparare le donne ad affrontare la società degli uomini.
The thesis investigates the life and political thought of Mary Astell (1666-1731), English political thinker, philosopher and theologian. Her reflections constitute an essential but rather unexplored chapter of English political thought and Constitutional History. Despite her Anglican Toryism, she embodies a proto-feminist critique to early modern patriarchy. While this critique is most consistently advanced by Astell, it is shared, notwithstanding some significant differences, by other outstanding female thinkers of the Century of Revolution. It can be defined as material antipatriarchalism, insofar as it questions the material power relations between the sexes and opposes the formal antipatriarchalism of Locke. Material antipatriarchalism is strictly linked to the female irruption into the emerging public sphere during the great rebellion of 1640s, which concurs with women's economic and legal agency. Therefore, together with the political and religious debate, legal treatises, conduct books, female petitions and prophecies of XVII and early XVIII century are taken into account in order to reconstruct the judicial and social context to which Astell belongs. Against this backdrop Astell elaborates her own political theology, which entails a critique of toleration policies and of the dissenters' and Whigs' attempt to reinterpret the English past. Astell theorizes the necessity of political order, whereby all power is held by God and the King, His vicar on earth. Absolute divine authority, in turn, paves the way to the radical equality of all souls in front of God, a condition that makes women's subordination to men unsustainable. The claim to women's equality is strongly reflected in the educational debate, where Astell intervenes proposing the creation of a philosophical-religious retirement that should lead to a separate public sphere able to prepare women to confront the male-run society.
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ZARU, Elia. "Crisi della modernità : storia, teorie e dibattiti (1979-2020)." Doctoral thesis, Scuola Normale Superiore, 2021. http://hdl.handle.net/11384/106388.

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Venturi, Bernardo <1980&gt. "Il demone della pace. Storia, metodologie e prospettive istituzionali della peace research e del pensiero di Johan Galtung." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2009. http://amsdottorato.unibo.it/2004/1/bernardo_venturi_tesi.pdf.

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Venturi, Bernardo <1980&gt. "Il demone della pace. Storia, metodologie e prospettive istituzionali della peace research e del pensiero di Johan Galtung." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2009. http://amsdottorato.unibo.it/2004/.

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Tomasello, Federico <1979&gt. "Fra il nome e la storia. Trasformazioni del discorso politico e concetto di classe al principio della monarchia di Luglio (1831-1832)." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2013. http://amsdottorato.unibo.it/5840/1/tomasello_federico_tesi.pdf.

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Abstract:
La ricerca indaga tensioni e trasformazioni che investono le principali correnti di pensiero politico in Francia nei primi anni della monarchia di Luglio, e vi osserva l’emergere del concetto di classe. Assumendo la dimensione dell’avvenimento come punto di intersezione fra storia e teoria, l’elaborato si concentra sul periodo novembre 1831-giugno 1832 per analizzare il modo in cui, nell’ordine del discorso politico repubblicano, liberale e socialista, le vicende di questi mesi vengono interpretate cercando di dar nome alle figure sociali che esse fanno irrompere nel dibattito pubblico. Il titolo Fra il nome e la storia fa dunque riferimento allo sforzo di indagare il campo di tensione che si apre fra concreto divenire storico e grandi operazioni di nominazione che segnano l’affiorare di strutture concettuali della lunga durata. L’emergere della nozione di classe operaia e delle categorie che intorno a essa si organizzano viene interpretata come una «formazione discorsiva» che pone in questione significato e confini del politico. La frattura del 1848 è assunta come orizzonte e margine esterno della ricerca nella misura in cui si ipotizza che essa segni una prima affermazione del regime di verità di tale formazione discorsiva: lo statuto politico del lavoro. L’elaborato consta di quattro capitoli. I primi tre indagano la riflessione sul politico e la funzione che in essa svolge il concetto di classe a partire dall’interpretazione di alcuni avvenimenti del tornante 1831-32 proposta nel discorso repubblicano del quotidiano «Le National» e della Société des Amis du Peuple, in quello del liberalismo dottrinario di François Guizot e in quello socialista nascente, prima del movimento sansimoniano, e poi muovendo fino al 1848 francese con l’analisi propostane da Karl Marx. Il quarto capitolo indaga infine la dimensione del «sociale», la sua elaborazione e articolazione attraverso il lavoro di studio e oggettivazione delle figure del mondo del lavoro.
The research investigates the tensions and transformations of the main streams of political thought in France, considering the emergence of the notion of class. Starting from a conception of event as a point of intersection between history and theory, the dissertation focuses on the period November 1831-June 1832 in order to analyze how republican, liberal and socialist discourses interpreted the events unfolding during those months in the attempt of naming the social figures that swarmed in the public debate. The title Between the Name and the History hence refers to the analysis of the field of tension that emerges between the concrete historical becoming and the naming operations that signal the rise of long-lasting conceptual structures. The dissertation understands the appearance of the notion of working class as a «discursive formation» that questions the boundaries of the political. The 1848 break is taken as the horizon and external limit of the dissertation, since the research hypothesizes this rift as a first utterance of the regime of truth belonging to this discursive formation: the political statute of labor. The dissertation consists of four chapters. The first three chapters investigate the reflections on the political and the function of the concept of class in these reflections, triggered by some events occurring in 1831-1832. The first chapter analyzes the rhetoric emerging in the republican discourse, particularly in the newspaper National and in the Société des Amis du Peuple. The second chapter examines the reflections that sprung from the doctrinaire liberalism discourse of Guizot. The third chapter investigates the considerations of the rising socialist discourse: from the saint-simonian movement to Marx’s analysis of 1848 in France. The fourth chapter is centered upon the «social» dimension: namely, its elaboration and articulation through the study and the objectification of different figures in the realm of labor.
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Tomasello, Federico <1979&gt. "Fra il nome e la storia. Trasformazioni del discorso politico e concetto di classe al principio della monarchia di Luglio (1831-1832)." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2013. http://amsdottorato.unibo.it/5840/.

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Abstract:
La ricerca indaga tensioni e trasformazioni che investono le principali correnti di pensiero politico in Francia nei primi anni della monarchia di Luglio, e vi osserva l’emergere del concetto di classe. Assumendo la dimensione dell’avvenimento come punto di intersezione fra storia e teoria, l’elaborato si concentra sul periodo novembre 1831-giugno 1832 per analizzare il modo in cui, nell’ordine del discorso politico repubblicano, liberale e socialista, le vicende di questi mesi vengono interpretate cercando di dar nome alle figure sociali che esse fanno irrompere nel dibattito pubblico. Il titolo Fra il nome e la storia fa dunque riferimento allo sforzo di indagare il campo di tensione che si apre fra concreto divenire storico e grandi operazioni di nominazione che segnano l’affiorare di strutture concettuali della lunga durata. L’emergere della nozione di classe operaia e delle categorie che intorno a essa si organizzano viene interpretata come una «formazione discorsiva» che pone in questione significato e confini del politico. La frattura del 1848 è assunta come orizzonte e margine esterno della ricerca nella misura in cui si ipotizza che essa segni una prima affermazione del regime di verità di tale formazione discorsiva: lo statuto politico del lavoro. L’elaborato consta di quattro capitoli. I primi tre indagano la riflessione sul politico e la funzione che in essa svolge il concetto di classe a partire dall’interpretazione di alcuni avvenimenti del tornante 1831-32 proposta nel discorso repubblicano del quotidiano «Le National» e della Société des Amis du Peuple, in quello del liberalismo dottrinario di François Guizot e in quello socialista nascente, prima del movimento sansimoniano, e poi muovendo fino al 1848 francese con l’analisi propostane da Karl Marx. Il quarto capitolo indaga infine la dimensione del «sociale», la sua elaborazione e articolazione attraverso il lavoro di studio e oggettivazione delle figure del mondo del lavoro.
The research investigates the tensions and transformations of the main streams of political thought in France, considering the emergence of the notion of class. Starting from a conception of event as a point of intersection between history and theory, the dissertation focuses on the period November 1831-June 1832 in order to analyze how republican, liberal and socialist discourses interpreted the events unfolding during those months in the attempt of naming the social figures that swarmed in the public debate. The title Between the Name and the History hence refers to the analysis of the field of tension that emerges between the concrete historical becoming and the naming operations that signal the rise of long-lasting conceptual structures. The dissertation understands the appearance of the notion of working class as a «discursive formation» that questions the boundaries of the political. The 1848 break is taken as the horizon and external limit of the dissertation, since the research hypothesizes this rift as a first utterance of the regime of truth belonging to this discursive formation: the political statute of labor. The dissertation consists of four chapters. The first three chapters investigate the reflections on the political and the function of the concept of class in these reflections, triggered by some events occurring in 1831-1832. The first chapter analyzes the rhetoric emerging in the republican discourse, particularly in the newspaper National and in the Société des Amis du Peuple. The second chapter examines the reflections that sprung from the doctrinaire liberalism discourse of Guizot. The third chapter investigates the considerations of the rising socialist discourse: from the saint-simonian movement to Marx’s analysis of 1848 in France. The fourth chapter is centered upon the «social» dimension: namely, its elaboration and articulation through the study and the objectification of different figures in the realm of labor.
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Cuppini, Niccolo' <1986&gt. "Genealogia della città globalizzata. Presupposti politici dell'urbanizzazione del mondo." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2016. http://amsdottorato.unibo.it/7621/2/Cuppini_Niccol%C3%B2_Tesi.pdf.

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Abstract:
Lo Stato non riesce più a proporsi quale unico attore del campo politico, e all'interno di quest'ultimo emerge la città globalizzata come polo di una politica oltre lo Stato. La tesi elabora dunque il concetto di città globalizzata ricorrendo a un approccio genealogico. Vengono individuati una serie di passaggi all'interno dei quali si mostrano linee di forza, rotture e mutazioni del suo divenire storico. L'analisi si muove analizzando il pensiero di autori vissuti in tali momenti, inserendoli all'interno della discussione di una sequenza di episodi che dalla città antica attraversano la modernità giungendo a oggi. Si dimostra come tutte queste capacità e problemi sviluppatisi storicamente si presentino simultaneamente all'interno della città globalizzata. La dissertazione è sviluppata seguendo la tensione tra la semantica dello Stato in relazione alla città. In questa direzione si mostra come la città globalizzata sia progressivamente divenuta forma di governo, società e territorio dello Stato – potendo dunque oggi configurare forme di parziale autonomia rispetto ad esso. Viene inoltre indicata una traiettoria che dalla città-mondo giunge alla città globalizzata passando per la metropoli e la città globale, discutendo come ciascuno di questi profili urbani indichi uno specifico assemblaggio dal quale si possono dedurre le mutazioni dei rapporti di potere nonché delle forme economiche e della guerra. La città globalizzata non è dunque il convergere verso un'unica forma di tutte le città del mondo, indicando invece una tensione con l'urbanizzazione planetaria contemporanea. Essa è piuttosto una griglia di intelligibilità politica per cogliere sistemi policentrici e multiscalari, attraversati da conflitti asimmetrici. La tesi si muove sui confini di numerose discipline, proponendo metodologicamente la formula seeing like a city e sostenendo la necessità di politicizzare il campo degli studi urbani e di urbanizzare il pensiero politico per poter articolare con maggiore complessità la costitutiva relazione tra città e scienze sociali.
The State is no more the unique actor of the political field. So, the globalized city is emerging as a new subject within the political arena. This thesis elaborates on the globalized city's concept through a genealogical approach. Within a series of tipping points, it shows the historical emergence of this new kind of city. The analysis focuses on many political thinkers that lived in that series of topical moments, from the ancient city to nowadays planetary urbanization. The dissertation is elaborated following the specific tension between the lexicon of the State related to the city. Than, it demonstrate that the globalized is historically become a form of govern, a society and a territory for the State. So, nowadays it shows some kind of autonomy in respect to it. Secondly, the thesis discuss the trajectory that goes from the World city to the Globalized city, passing through the metropolis and the global city. Each of this urban profile shows a specific assemblage through which it is possible to understand the transformation occurred in the economical and political relationships, and also the transitions in the war paradigm. The globalized city does not mean that every city on the planet is following the same model. Rather, it shows a tension in respect to the planetary urbanization forms. Instead, the globalized city is a grid to grasp politically the contemporary polycentric and multiscalar systems, that are crisscrossed by new asymmetric conflicts. In terms of methodology, the dissertation is elaborated on the boundaries of many disciplines, and it proposes a “seeing like a city” as a way through which to politicize the urban studies field and to urbanize the political theories. This is, finally, a way to gain more complexity on the fundamental link between social sciences and the city.
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Cuppini, Niccolo' <1986&gt. "Genealogia della città globalizzata. Presupposti politici dell'urbanizzazione del mondo." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2016. http://amsdottorato.unibo.it/7621/.

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Abstract:
Lo Stato non riesce più a proporsi quale unico attore del campo politico, e all'interno di quest'ultimo emerge la città globalizzata come polo di una politica oltre lo Stato. La tesi elabora dunque il concetto di città globalizzata ricorrendo a un approccio genealogico. Vengono individuati una serie di passaggi all'interno dei quali si mostrano linee di forza, rotture e mutazioni del suo divenire storico. L'analisi si muove analizzando il pensiero di autori vissuti in tali momenti, inserendoli all'interno della discussione di una sequenza di episodi che dalla città antica attraversano la modernità giungendo a oggi. Si dimostra come tutte queste capacità e problemi sviluppatisi storicamente si presentino simultaneamente all'interno della città globalizzata. La dissertazione è sviluppata seguendo la tensione tra la semantica dello Stato in relazione alla città. In questa direzione si mostra come la città globalizzata sia progressivamente divenuta forma di governo, società e territorio dello Stato – potendo dunque oggi configurare forme di parziale autonomia rispetto ad esso. Viene inoltre indicata una traiettoria che dalla città-mondo giunge alla città globalizzata passando per la metropoli e la città globale, discutendo come ciascuno di questi profili urbani indichi uno specifico assemblaggio dal quale si possono dedurre le mutazioni dei rapporti di potere nonché delle forme economiche e della guerra. La città globalizzata non è dunque il convergere verso un'unica forma di tutte le città del mondo, indicando invece una tensione con l'urbanizzazione planetaria contemporanea. Essa è piuttosto una griglia di intelligibilità politica per cogliere sistemi policentrici e multiscalari, attraversati da conflitti asimmetrici. La tesi si muove sui confini di numerose discipline, proponendo metodologicamente la formula seeing like a city e sostenendo la necessità di politicizzare il campo degli studi urbani e di urbanizzare il pensiero politico per poter articolare con maggiore complessità la costitutiva relazione tra città e scienze sociali.
The State is no more the unique actor of the political field. So, the globalized city is emerging as a new subject within the political arena. This thesis elaborates on the globalized city's concept through a genealogical approach. Within a series of tipping points, it shows the historical emergence of this new kind of city. The analysis focuses on many political thinkers that lived in that series of topical moments, from the ancient city to nowadays planetary urbanization. The dissertation is elaborated following the specific tension between the lexicon of the State related to the city. Than, it demonstrate that the globalized is historically become a form of govern, a society and a territory for the State. So, nowadays it shows some kind of autonomy in respect to it. Secondly, the thesis discuss the trajectory that goes from the World city to the Globalized city, passing through the metropolis and the global city. Each of this urban profile shows a specific assemblage through which it is possible to understand the transformation occurred in the economical and political relationships, and also the transitions in the war paradigm. The globalized city does not mean that every city on the planet is following the same model. Rather, it shows a tension in respect to the planetary urbanization forms. Instead, the globalized city is a grid to grasp politically the contemporary polycentric and multiscalar systems, that are crisscrossed by new asymmetric conflicts. In terms of methodology, the dissertation is elaborated on the boundaries of many disciplines, and it proposes a “seeing like a city” as a way through which to politicize the urban studies field and to urbanize the political theories. This is, finally, a way to gain more complexity on the fundamental link between social sciences and the city.
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Ravano, Lorenzo <1987&gt. "Genealogia del radicalismo nero: il pensiero politico dell'abolizionismo nero." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2017. http://amsdottorato.unibo.it/7821/1/Tesi%20Ravano%20Genealogia%20del%20radicalismo%20nero.pdf.

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Abstract:
La ricerca ricostruisce in chiave genealogica i fondamenti teorici e concettuali della cosiddetta tradizione radicale nera del XX secolo, qui interpretata come una critica della modernità, attraverso l’analisi del pensiero politico dell’abolizionismo nero. Più precisamente, è ricostruito dal punto di vista della storia dei concetti politici moderni il pensiero politico prodotto dai principali esponenti delle lotte contro la schiavitù condotte nello spazio transnazionale dell’Atlantico tra la seconda metà del XVIII e la prima metà del XIX secolo. L’abolizionismo nero è letto come un pensiero politico articolato secondo una costante appropriazione sovversiva del lessico e dei concetti politici moderni. Si mostra che la critica nera agisce secondo due linee costanti: lo ‘sdoppiamento’ dei concetti politici (cioè un movimento di appropriazione e trasformazione) e la sovversione degli assetti spaziali della modernità (cioè la rottura della distinzione tra Stato e colonia). Gli elementi di maggiore originalità del lavoro sono individuabili tanto sul piano contenutistico quanto su quello metodologico. Anzitutto, si tratta del primo studio dell’abolizionismo nero visto da una prospettiva atlantica e di storia concettuale. Il lavoro analizza inoltre diverse tipologie di fonti (petizioni, autobiografie, proclami militari, regolamenti amministrativi, discorsi, romanzi e slave songs) solitamente marginali nella Storia delle dottrine politiche. La tesi è strutturata il quattro capitoli. Nel primo capitolo è presentata un’analisi per temi e concetti del radicalismo nero novecentesco. I tre capitoli successivi sono invece dedicati all’abolizionismo nero e sono strutturati secondo una scansione cronologica volta a individuare tre momenti di discontinuità. Il secondo capitolo discute l’emergere della critica nera durante la rivoluzione americana e all’interno del movimento antischiavista britannico. Il terzo capitolo è invece dedicato alla Rivoluzione di Haiti, interpretata come cesura fondamentale nella storia dell’abolizionismo nero. Il quarto capitolo analizza infine il movimento abolizionista afroamericano.
The dissertation provides a genealogy of the theoretical and conceptual foundations of the black radical tradition through a reconstruction of the political discourse and practices of the main black abolitionists of the Atlantic World from the so-called Age of Revolutions to the end of the American Civil War. In particular, the black radical tradition is conceived as a peculiar critique of modernity. Indeed, black critique highlights the constitutive duplicity of modernity (i.e. European and colonial) and produces both a ‘provincialization’ and a transformation of the basic concepts of modern political thought (such as freedom, equality, democracy, nation). In this way, the research shows that black abolitionism is a political thought characterized by two elements: the subversion of modern spatiality and the “doubling” of political concepts. On the one hand, black abolitionism overturns the conceptual distinction between the State, as the space of order, and the colony, as an irrational and uncivilized place. In other words, it shows that slavery, colonialism, and racism are not peripheral moments of modernity but instead one of its foundations. On the other hand, black abolitionists used different political lexicons to communicate a struggle for self-liberation which had its own conceptual originality. The dissertation is structured in four chapters. The first provides a definition of the theoretical foundations of black radicalism in the XX Century, and is focused on some of its main figures. The other chapters provide a reconstruction of the political thought of black abolitionism, defined by three moments of discontinuity. The second chapter is dedicated to the black abolitionists within the American Revolution and the British abolitionist movement. The third chapter is on the Haitian Revolution, conceived as the fundamental turning point in the history of black abolitionism and its critique of modernity. The last chapter is on the African American abolitionist movement.
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Grappi, Giorgio <1977&gt. "La questione antifederalista e il dibattito sulla ratifica della Costituzione degli Stati Uniti, 1787-1788." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2007. http://amsdottorato.unibo.it/192/1/Tesi_Grappi_dottorato_Europa_e_americhe_XIXciclo.pdf.

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Grappi, Giorgio <1977&gt. "La questione antifederalista e il dibattito sulla ratifica della Costituzione degli Stati Uniti, 1787-1788." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2007. http://amsdottorato.unibo.it/192/.

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Rudan, Paola <1978&gt. "Dalla costituzione al governo. Jeremy Bentham e le Americhe." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2007. http://amsdottorato.unibo.it/193/1/Rudan._Jeremy_Bentham_e_le_Americhe.pdf.

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Rudan, Paola <1978&gt. "Dalla costituzione al governo. Jeremy Bentham e le Americhe." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2007. http://amsdottorato.unibo.it/193/.

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Tortelli, Alessandro <1979&gt. "L'idea di "società internazionale", l'espansione dell'ordinamento politico-giuridico internazionale europeo e la nascita dell'idea di "League of Nations" nella riflessione politico-giuridica inglese nella seconda metà del XIX secolo." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2007. http://amsdottorato.unibo.it/194/1/Tesi_Tortelli.pdf.

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Tortelli, Alessandro <1979&gt. "L'idea di "società internazionale", l'espansione dell'ordinamento politico-giuridico internazionale europeo e la nascita dell'idea di "League of Nations" nella riflessione politico-giuridica inglese nella seconda metà del XIX secolo." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2007. http://amsdottorato.unibo.it/194/.

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Marton, Silvia <1976&gt. "La construction politique de la nation. La nation dans les débats du Parlement de la Roumanie: 1866-1871." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2007. http://amsdottorato.unibo.it/448/1/Marton_Bologna_final.pdf.

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Marton, Silvia <1976&gt. "La construction politique de la nation. La nation dans les débats du Parlement de la Roumanie: 1866-1871." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2007. http://amsdottorato.unibo.it/448/.

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Marculescu, Raluca-Ioana <1975&gt. "Le concept de démocratie dans la pensée politique roumaine de la première moitié du XIXème siècle." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2007. http://amsdottorato.unibo.it/450/1/TesiRaluca_IoanaMarculescu.pdf.

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Marculescu, Raluca-Ioana <1975&gt. "Le concept de démocratie dans la pensée politique roumaine de la première moitié du XIXème siècle." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2007. http://amsdottorato.unibo.it/450/.

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Cazaban, Miruna-Irina <1976&gt. "Quod omnes tangit: le problème du consentement politique de Thomas d’Aquin jusqu’à Nicolas de Cues." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2007. http://amsdottorato.unibo.it/459/1/Tesi_Cazaban.pdf.

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Cazaban, Miruna-Irina <1976&gt. "Quod omnes tangit: le problème du consentement politique de Thomas d’Aquin jusqu’à Nicolas de Cues." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2007. http://amsdottorato.unibo.it/459/.

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Battistini, Matteo <1979&gt. "Thomas Paine nella trasmissione atlantica della rivoluzione." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2008. http://amsdottorato.unibo.it/819/1/Tesi_Battistini_Matteo.pdf.

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Abstract:
Call me Ismail. Così inizia notoriamente il celebre romanzo di Herman Melville, Moby Dick. In un altro racconto, ambientato nel 1797, anno del grande ammutinamento della flotta del governo inglese, Melville dedica un breve accenno a Thomas Paine. Il racconto è significativo di quanto – ancora nella seconda metà dell’Ottocento – l’autore di Common Sense e Rights of Man sia sinonimo delle possibilità radicalmente democratiche che l’ultima parte del Settecento aveva offerto. Melville trova in Paine la chiave per dischiudere nel presente una diversa interpretazione della rivoluzione: non come una vicenda terminata e confinata nel passato, ma come una possibilità che persiste nel presente, “una crisi mai superata” che viene raffigurata nel dramma interiore del gabbiere di parrocchetto, Billy Budd. Il giovane marinaio della nave mercantile chiamata Rights of Man mostra un’attitudine docile e disponibile all’obbedienza, che lo rende pronto ad accettare il volere dei superiori. Billy non contesta l’arruolamento forzato nella nave militare. Nonostante il suo carattere affabile, non certo irascibile, l’esperienza in mare sulla Rights of Man rappresenta però un peccato difficile da espiare: il sospetto è più forte della ragionevolezza, specie quando uno spettro di insurrezione continua ad aggirarsi nella flotta di sua maestà. Così, quando, imbarcato in una nave militare della flotta inglese, con un violento pugno Billy uccide l’uomo che lo accusa di tramare un nuovo ammutinamento, il destino inevitabile è quello di un’esemplare condanna a morte. Una condanna che, si potrebbe dire, mostra come lo spettro della rivoluzione continui ad agitare le acque dell’oceano Atlantico. Nella Prefazione Melville fornisce una chiave di lettura per accedere al testo e decifrare il dramma interiore del marinaio: nella degenerazione nel Terrore, la vicenda francese indica una tendenza al tradimento della rivoluzione, che è così destinata a ripetere continuamente se stessa. Se “la rivoluzione si trasformò essa stessa in tirannia”, allora la crisi segna ancora la società atlantica. Non è però alla classica concezione del tempo storico – quella della ciclica degenerazione e rigenerazione del governo – che Melville sembra alludere. Piuttosto, la vicenda rivoluzionaria che ha investito il mondo atlantico ha segnato un radicale punto di cesura con il passato: la questione non è quella della continua replica della storia, ma quella del continuo circolare dello “spirito rivoluzionario”, come dimostra nell’estate del 1797 l’esperienza di migliaia di marinai che tra grida di giubilo issano sugli alberi delle navi i colori britannici da cui cancellano lo stemma reale e la croce, abolendo così d’un solo colpo la bandiera della monarchia e trasformando il mondo in miniatura della flotta di sua maestà “nella rossa meteora di una violenta e sfrenata rivoluzione”. Raccontare la vicenda di Billy riporta alla memoria Paine. L’ammutinamento è solo un frammento di un generale spirito rivoluzionario che “l’orgoglio nazionale e l’opinione politica hanno voluto relegare nello sfondo della storia”. Quando Billy viene arruolato, non può fare a meno di portare con sé l’esperienza della Rights of Man. Su quel mercantile ha imparato a gustare il dolce sapore del commercio insieme all’asprezza della competizione sfrenata per il mercato, ha testato la libertà non senza subire la coercizione di un arruolamento forzato. La vicenda di Billy ricorda allora quella del Paine inglese prima del grande successo di Common Sense, quando muove da un’esperienza di lavoro all’altra in modo irrequieto alla ricerca di felicità – dal mestiere di artigiano all’avventura a bordo di un privateer inglese durante la guerra dei sette anni, dalla professione di esattore fiscale alle dipendenze del governo, fino alla scelta di cercare fortuna in America. Così come Paine rivendica l’originalità del proprio pensiero, il suo essere un autodidatta e le umili origini che gli hanno impedito di frequentare le biblioteche e le accademie inglesi, anche Billy ha “quel tipo e quel grado di intelligenza che si accompagna alla rettitudine non convenzionale di ogni integra creatura umana alla quale non sia ancora stato offerto il dubbio pomo della sapienza”. Così come il pamphlet Rights of man porta alla virtuale condanna a morte di Paine – dalla quale sfugge trovando rifugio a Parigi – allo stesso modo il passato da marinaio sulla Rights of Man porta al processo per direttissima che sentenzia la morte per impiccagione del giovane marinaio. Il dramma interiore di Billy replica dunque l’esito negativo della rivoluzione in Europa: la rivoluzione è in questo senso come un “violento accesso di febbre contagiosa”, destinato a scomparire “in un organismo costituzionalmente sano, che non tarderà a vincerla”. Non viene però meno la speranza: quella della rivoluzione sembra una storia senza fine perché Edward Coke e William Blackstone – i due grandi giuristi del common law inglese che sono oggetto della violenta critica painita contro la costituzione inglese – “non riescono a far luce nei recessi oscuri dell’animo umano”. Rimane dunque uno spiraglio, un angolo nascosto dal quale continua a emergere uno spirito rivoluzionario. Per questo non esistono cure senza effetti collaterali, non esiste ordine senza l’ipoteca del ricorso alla forza contro l’insurrezione: c’è chi come l’ufficiale che condanna Billy diviene baronetto di sua maestà, c’è chi come Billy viene impiccato, c’è chi come Paine viene raffigurato come un alcolizzato e impotente, disonesto e depravato, da relegare sul fondo della storia atlantica. Eppure niente più del materiale denigratorio pubblicato contro Paine ne evidenzia il grande successo. Il problema che viene sollevato dalle calunniose biografie edite tra fine Settecento e inizio Ottocento è esattamente quello del trionfo dell’autore di Common Sense e Rights of Man nell’aver promosso, spiegato e tramandato la rivoluzione come sfida democratica che è ancora possibile vincere in America come in Europa. Sono proprio le voci dei suoi detrattori – americani, inglesi e francesi – a mostrare che la dimensione nella quale è necessario leggere Paine è quella del mondo atlantico. Assumendo una prospettiva atlantica, ovvero ricostruendo la vicenda politica e intellettuale di Paine da una sponda all’altra dell’oceano, è possibile collegare ciò che Paine dice in spazi e tempi diversi in modo da segnalare la presenza costante sulla scena politica di quei soggetti che – come i marinai protagonisti dell’ammutinamento – segnalano il mancato compimento delle speranze aperte dall’esperienza rivoluzionaria. Limitando la ricerca al processo di costruzione della nazione politica, scegliendo di riassumerne il pensiero politico nell’ideologia americana, nella vicenda costituzionale francese o nel contesto politico inglese, le ricerche su Paine non sono riuscite fino in fondo a mostrare la grandezza di un autore che risulta ancora oggi importante: la sua produzione intellettuale è talmente segnata dalle vicende rivoluzionarie che intessono la sua biografia da fornire la possibilità di studiare quel lungo periodo di trasformazione sociale e politica che investe non una singola nazione, ma l’intero mondo atlantico nel corso della rivoluzione. Attraverso Paine è allora possibile superare quella barriera che ha diviso il dibattito storiografico tra chi ha trovato nella Rivoluzione del 1776 la conferma del carattere eccezionale della nazione americana – fin dalla sua origine rappresentata come esente dalla violenta conflittualità che invece investe il vecchio continente – e chi ha relegato il 1776 a data di secondo piano rispetto al 1789, individuando nell’illuminismo la presunta superiorità culturale europea. Da una sponda all’altra dell’Atlantico, la storiografia ha così implicitamente alzato un confine politico e intellettuale tra Europa e America, un confine che attraverso Paine è possibile valicare mostrandone la debolezza. Parlando di prospettiva atlantica, è però necessario sgombrare il campo da possibili equivoci: attraverso Paine, non intendiamo stabilire l’influenza della Rivoluzione americana su quella francese, né vogliamo mostrare l’influenza del pensiero politico europeo sulla Rivoluzione americana. Non si tratta cioè di stabilire un punto prospettico – americano o europeo – dal quale leggere Paine. L’obiettivo non è quello di sottrarre Paine agli americani per restituirlo agli inglesi che l’hanno tradito, condannandolo virtualmente a morte. Né è quello di confermare l’americanismo come suo unico lascito culturale e politico. Si tratta piuttosto di considerare il mondo atlantico come l’unico scenario nel quale è possibile leggere Paine. Per questo, facendo riferimento al complesso filone storiografico dell’ultimo decennio, sviluppato in modo diverso da Bernard Bailyn a Markus Rediker e Peter Linebaugh, parliamo di rivoluzione atlantica. Certo, Paine vede fallire nell’esperienza del Terrore quella rivoluzione che in America ha trionfato. Ciò non costituisce però un elemento sufficiente per riproporre l’interpretazione arendtiana della rivoluzione che, sulla scorta della storiografia del consenso degli anni cinquanta, ma con motivi di fascino e interesse che non sempre ritroviamo in quella storiografia, ha contribuito ad affermare un ‘eccezionalismo’ americano anche in Europa, rappresentando gli americani alle prese con il problema esclusivamente politico della forma di governo, e i francesi impegnati nel rompicapo della questione sociale della povertà. Rompicapo che non poteva non degenerare nella violenza francese del Terrore, mentre l’America riusciva a istituire pacificamente un nuovo governo rappresentativo facendo leva su una società non conflittuale. Attraverso Paine, è infatti possibile mostrare come – sebbene con intensità e modalità diverse – la rivoluzione incida sul processo di trasformazione commerciale della società che investe l’intero mondo atlantico. Nel suo andirivieni da una sponda all’altra dell’oceano, Paine non ragiona soltanto sulla politica – sulla modalità di organizzare una convivenza democratica attraverso la rappresentanza, convivenza che doveva trovare una propria legittimazione nel primato della costituzione come norma superiore alla legge stabilita dal popolo. Egli riflette anche sulla società commerciale, sui meccanismi che la muovono e le gerarchie che la attraversano, mostrando così precise linee di continuità che tengono insieme le due sponde dell’oceano non solo nella circolazione del linguaggio politico, ma anche nella comune trasformazione sociale che investe i termini del commercio, del possesso della proprietà e del lavoro, dell’arricchimento e dell’impoverimento. Con Paine, America e Europa non possono essere pensate separatamente, né – come invece suggerisce il grande lavoro di Robert Palmer, The Age of Democratic Revolution – possono essere inquadrate dentro un singolo e generale movimento rivoluzionario essenzialmente democratico. Emergono piuttosto tensioni e contraddizioni che investono il mondo atlantico allontanando e avvicinando continuamente le due sponde dell’oceano come due estremità di un elastico. Per questo, parliamo di società atlantica. Quanto detto trova conferma nella difficoltà con la quale la storiografia ricostruisce la figura politica di Paine dentro la vicenda rivoluzionaria americana. John Pocock riconosce la difficoltà di comprendere e spiegare Paine, quando sostiene che Common Sense non evoca coerentemente nessun prestabilito vocabolario atlantico e la figura di Paine non è sistemabile in alcuna categoria di pensiero politico. Partendo dal paradigma classico della virtù, legata antropologicamente al possesso della proprietà terriera, Pocock ricostruisce la permanenza del linguaggio repubblicano nel mondo atlantico senza riuscire a inserire Common Sense e Rights of Man nello svolgimento della rivoluzione. Sebbene non esplicitamente dichiarata, l’incapacità di comprendere il portato innovativo di Common Sense, in quella che è stata definita sintesi repubblicana, è evidente anche nel lavoro di Bernard Bailyn che spiega come l’origine ideologica della rivoluzione, radicata nella paura della cospirazione inglese contro la libertà e nel timore della degenerazione del potere, si traduca ben presto in un sentimento fortemente contrario alla democrazia. Segue questa prospettiva anche Gordon Wood, secondo il quale la chiamata repubblicana per l’indipendenza avanzata da Paine non parla al senso comune americano, critico della concezione radicale del governo rappresentativo come governo della maggioranza, che Paine presenta quando partecipa al dibattito costituzionale della Pennsylvania rivoluzionaria. Paine è quindi considerato soltanto nelle risposte repubblicane dei leader della guerra d’indipendenza che temono una possibile deriva democratica della rivoluzione. Paine viene in questo senso dimenticato. La sua figura è invece centrale della nuova lettura liberale della rivoluzione: Joyce Appleby e Isaac Kramnick contestano alla letteratura repubblicana di non aver compreso che la separazione tra società e governo – la prima intesa come benedizione, il secondo come male necessario – con cui si apre Common Sense rappresenta il tentativo riuscito di cogliere, spiegare e tradurre in linguaggio politico l’affermazione del capitalismo. In particolare, Appleby critica efficacemente il concetto d’ideologia proposto dalla storiografia repubblicana, perché presuppone una visione statica della società. L’affermazione del commercio fornirebbe invece quella possibilità di emancipazione attraverso il lavoro libero, che Paine coglie perfettamente promuovendo una visione della società per la quale il commercio avrebbe permesso di raggiungere la libertà senza il timore della degenerazione della rivoluzione nel disordine. Questa interpretazione di Paine individua in modo efficace un aspetto importante del suo pensiero politico, la sua profonda fiducia nel commercio come strumento di emancipazione e progresso. Tuttavia, non risulta essere fino in fondo coerente e pertinente, se vengono prese in considerazione le diverse agende politiche avanzate in seguito alla pubblicazione di Common Sense e di Rights of Man, né sembra reggere quando prendiamo in mano The Agrarian Justice (1797), il pamphlet nel quale Paine mette in discussione la sua profonda fiducia nel progresso della società commerciale. Diverso è il Paine che emerge dalla storiografia bottom-up, secondo la quale la rivoluzione non può più essere ridotta al momento repubblicano o all’affermazione senza tensione del liberalismo: lo studio della rivoluzione deve essere ampliato fino a comprendere quell’insieme di pratiche e discorsi che mirano all’incisiva trasformazione dell’esistente slegando il diritto di voto dalla qualifica proprietaria, perseguendo lo scopo di frenare l’accumulazione di ricchezza nelle mani di pochi con l’intento di ordinare la società secondo una logica di maggiore uguaglianza. Come dimostrano Eric Foner e Gregory Claeys, attraverso Paine è allora possibile rintracciare, sulla sponda americana come su quella inglese dell’Atlantico, forti pretese democratiche che non sembrano riducibili al linguaggio liberale, né a quello repubblicano. Paine viene così sottratto a rigide categorie storiografiche che per troppo tempo l’hanno consegnato tout court all’elogio del campo liberale o al silenzio di quello repubblicano. Facendo nostra la metodologia di ricerca elaborata dalla storiografia bottom-up per tenere insieme storia sociale e storia intellettuale, possiamo allora leggere Paine non solo per parlare di rivoluzione atlantica, ma anche di società atlantica: società e politica costituiscono un unico orizzonte d’indagine dal quale esce ridimensionata l’interpretazione della rivoluzione come rivoluzione esclusivamente politica, che – sebbene in modo diverso – tanto la storiografia repubblicana quanto quella liberale hanno rafforzato, alimentando indirettamente l’eccezionale successo americano contro la clamorosa disfatta europea. Entrambe le sponde dell’Atlantico mostrano una società in transizione: la costruzione della finanza nazionale con l’istituzione del debito pubblico e la creazione delle banche, la definizione delle forme giuridiche che stabiliscono modalità di possesso e impiego di proprietà e lavoro, costituiscono un complesso strumentario politico necessario allo sviluppo del commercio e al processo di accumulazione di ricchezza. Per questo, la trasformazione commerciale della società è legata a doppio filo con la rivoluzione politica. Ricostruire il modo nel quale Paine descrive e critica la società da una sponda all’altra dell’Atlantico mostra come la separazione della società dal governo non possa essere immediatamente interpretata come essenza del liberalismo economico e politico. La lettura liberale rappresenta senza ombra di dubbio un salto di qualità nell’interpretazione storiografica perché spiega in modo convincente come Paine traduca in discorso politico il passaggio da una società fortemente gerarchica come quella inglese, segnata dalla condizione di povertà e miseria comune alle diverse figure del lavoro, a una realtà sociale come quella americana decisamente più dinamica, dove il commercio e le terre libere a ovest offrono ampie possibilità di emancipazione e arricchimento attraverso il lavoro libero. Tuttavia, leggendo The Case of Officers of Excise (1772) e ricostruendo la sua attività editoriale alla guida del Pennsylvania Magazine (1775) è possibile giungere a una conclusione decisamente più complessa rispetto a quella suggerita dalla storiografia liberale: il commercio non sembra affatto definire una qualità non conflittuale del contesto atlantico. Piuttosto, nonostante l’assenza dell’antico ordine ‘cetuale’ europeo, esso investe la società di una tendenza alla trasformazione, la cui direzione, intensità e velocità dipendono anche dall’esito dello scontro politico in atto dentro la rivoluzione. Spostando l’attenzione su figure sociali che in quella letteratura sono di norma relegate in secondo piano, Paine mira infatti a democratizzare la concezione del commercio indicando nell’indipendenza personale la condizione comune alla quale poveri e lavoratori aspirano: per chi è coinvolto in prima persona nella lotta per l’indipendenza, la visione della società non indica allora un ordine naturale, dato e immutabile, quanto una scommessa sul futuro, un ideale che dovrebbe avviare un cambiamento sociale coerente con le diverse aspettative di emancipazione. Senza riconoscere questa valenza democratica del commercio non è possibile superare il consenso come presupposto incontestabile della Rivoluzione americana, nel quale tanto la storiografia repubblicana quanto quella librale tendono a cadere: non è possibile superare l’immagine statica della società americana, implicitamente descritta dalla prima, né andare oltre la visione di una società dinamica, ma priva di gerarchie e oppressione, come quella delineata dalla seconda. Le entusiastiche risposte e le violente critiche in favore e contro Common Sense, la dura polemica condotta in difesa o contro la costituzione radicale della Pennsylvania, la diatriba politica sul ruolo dei ricchi mercanti mostrano infatti una società in transizione lungo linee che sono contemporaneamente politiche e sociali. Dentro questo contesto conflittuale, repubblicanesimo e liberalismo non sembrano affatto competere l’uno contro l’altro per esercitare un’influenza egemone nella costruzione del governo rappresentativo. Vengono piuttosto mescolati e ridefiniti per rispondere alla pretese democratiche che provengono dalla parte bassa della società. Common Sense propone infatti un piano politico per l’indipendenza del tutto innovativo rispetto al modo nel quale le colonie hanno fino a quel momento condotto la controversia con la madre patria: la chiamata della convenzione rappresentativa di tutti gli individui per scrivere una nuova costituzione assume le sembianze di un vero e proprio potere costituente. Con la mobilitazione di ampie fasce della popolazione per vincere la guerra contro gli inglesi, le élite mercantili e proprietarie perdono il monopolio della parola e il processo decisionale è aperto anche a coloro che non hanno avuto voce nel governo coloniale. La dottrina dell’indipendenza assume così un carattere democratico. Paine non impiega direttamente il termine, tuttavia le risposte che seguono la pubblicazione di Common Sense lanciano esplicitamente la sfida della democrazia. Ciò mostra come la rivoluzione non possa essere letta semplicemente come affermazione ideologica del repubblicanesimo in continuità con la letteratura d’opposizione del Settecento britannico, o in alternativa come transizione non conflittuale al liberalismo economico e politico. Essa risulta piuttosto comprensibile nella tensione tra repubblicanesimo e democrazia: se dentro la rivoluzione (1776-1779) Paine contribuisce a democratizzare la società politica americana, allora – ed è questo un punto importante, non sufficientemente chiarito dalla storiografia – il recupero della letteratura repubblicana assume il carattere liberale di una strategia tesa a frenare le aspettative di chi considera la rivoluzione politica come un mezzo per superare la condizione di povertà e le disuguaglianze che pure segnano la società americana. La dialettica politica tra democrazia e repubblicanesimo consente di porre una questione fondamentale per comprendere la lunga vicenda intellettuale di Paine nella rivoluzione atlantica e anche il rapporto tra trasformazione sociale e rivoluzione politica: è possibile sostenere che in America la congiunzione storica di processo di accumulazione di ricchezza e costruzione del governo rappresentativo pone la società commerciale in transizione lungo linee capitalistiche? Questa non è certo una domanda che Paine pone esplicitamente, né in Paine troviamo una risposta esaustiva. Tuttavia, la sua collaborazione con i ricchi mercanti di Philadelphia suggerisce una valida direzione di indagine dalla quale emerge che il processo di costruzione del governo federale è connesso alla definizione di una cornice giuridica entro la quale possa essere realizzata l’accumulazione del capitale disperso nelle periferie dell’America indipendente. Paine viene così coinvolto in un frammentato e dilatato scontro politico dove – nonostante la conclusione della guerra contro gli inglesi nel 1783 – la rivoluzione non sembra affatto conclusa perché continua a muovere passioni che ostacolano la costruzione dell’ordine: leggere Paine fuori dalla rivoluzione (1780-1786) consente paradossalmente di descrivere la lunga durata della rivoluzione e di considerare la questione della transizione dalla forma confederale a quella federale dell’unione come un problema di limiti della democrazia. Ricostruire la vicenda politica e intellettuale di Paine in America permette infine di evidenziare un ambiguità costitutiva della società commerciale dentro la quale il progetto politico dei ricchi mercanti entra in tensione con un’attitudine popolare critica del primo processo di accumulazione che rappresenta un presupposto indispensabile all’affermazione del capitalismo. La rivoluzione politica apre in questo senso la società commerciale a una lunga e conflittuale transizione verso il capitalismo Ciò risulta ancora più evidente leggendo Paine in Europa (1791-1797). Da una sponda all’altra dell’Atlantico, con Rights of Man egli esplicita ciò che in America ha preferito mantenere implicito, pur raccogliendo la sfida democratica lanciata dai friend of Common Sense: il salto in avanti che la rivoluzione atlantica deve determinare nel progresso dell’umanità è quello di realizzare la repubblica come vera e propria democrazia rappresentativa. Tuttavia, il fallimento del progetto politico di convocare una convenzione nazionale in Inghilterra e la degenerazione dell’esperienza repubblicana francese nel Terrore costringono Paine a mettere in discussione quella fiducia nel commercio che la storiografia liberale ha con grande profitto mostrato: il mancato compimento della rivoluzione in Europa trova infatti spiegazione nella temporanea impossibilità di tenere insieme democrazia rappresentativa e società commerciale. Nel contesto europeo, fortemente disgregato e segnato da durature gerarchie e forti disuguaglianze, con The Agrarian Justice, Paine individua nel lavoro salariato la causa del contraddittorio andamento – di arricchimento e impoverimento – dello sviluppo economico della società commerciale. La tendenza all’accumulazione non è quindi l’unica qualità della società commerciale in transizione. Attraverso Paine, possiamo individuare un altro carattere decisivo per comprendere la trasformazione sociale, quello dell’affermazione del lavoro salariato. Non solo in Europa. Al ritorno in America, Paine non porta con sé la critica della società commerciale. Ciò non trova spiegazione esclusivamente nel minor grado di disuguaglianza della società americana. Leggendo Paine in assenza di Paine (1787-1802) – ovvero ricostruendo il modo nel quale dall’Europa egli discute, critica e influenza la politica americana – mostreremo come la costituzione federale acquisisca gradualmente la supremazia sulla conflittualità sociale. Ciò non significa che l’America indipendente sia caratterizzata da un unanime consenso costituzionale. Piuttosto, è segnata da un lungo e tortuoso processo di stabilizzazione che esclude la democrazia dall’immediato orizzonte della repubblica americana. Senza successo, Paine torna infatti a promuovere una nuova sfida democratica come nella Pennsylvania rivoluzionaria degli anni settanta. E’ allora possibile vedere come la rivoluzione atlantica venga stroncata su entrambe le sponde dell’oceano: i grandi protagonisti della politica atlantica che prendono direttamente parola contro l’agenda democratica painita – Edmund Burke, Boissy d’Anglas e John Quincy Adams – spostano l’attenzione dal governo alla società per rafforzare le gerarchie determinate dal possesso di proprietà e dall’affermazione del lavoro salariato. Dentro la rivoluzione atlantica, viene così svolto un preciso compito politico, quello di contribuire alla formazione di un ambiente sociale e culturale favorevole all’affermazione del capitalismo – dalla trasformazione commerciale della società alla futura innovazione industriale. Ciò emerge in tutta evidenza quando sulla superficie increspata dell’oceano Atlantico compare nuovamente Paine: a Londra come a New York. Abbandonando quella positiva visione del commercio come vettore di emancipazione personale e collettiva, nel primo trentennio del diciannovesimo secolo, i lavoratori delle prime manifatture compongono l’agenda radicale che Paine lascia in eredità in un linguaggio democratico che assume così la valenza di linguaggio di classe. La diversa prospettiva politica sulla società elaborata da Paine in Europa torna allora d’attualità, anche in America. Ciò consente in conclusione di discutere quella storiografia secondo la quale nella repubblica dal 1787 al 1830 il trionfo della democrazia ha luogo – senza tensione e conflittualità – insieme con la lineare e incontestata affermazione del capitalismo: leggere Paine nella rivoluzione atlantica consente di superare quell’approccio storiografico che tende a ricostruire la circolazione di un unico paradigma linguistico o di un’ideologia dominante, finendo per chiudere la grande esperienza rivoluzionaria atlantica in un tempo limitato – quello del 1776 o in alternativa del 1789 – e in uno spazio chiuso delimitato dai confini delle singole nazioni. Quello che emerge attraverso Paine è invece una società atlantica in transizione lungo linee politiche e sociali che tracciano una direzione di marcia verso il capitalismo, una direzione affatto esente dal conflitto. Neanche sulla sponda americana dell’oceano, dove attraverso Paine è possibile sottolineare una precisa congiunzione storica tra rivoluzione politica, costruzione del governo federale e transizione al capitalismo. Una congiunzione per la quale la sfida democratica non risulta affatto sconfitta: sebbene venga allontanata dall’orizzonte immediato della rivoluzione, nell’arco di neanche un ventennio dalla morte di Paine nel 1809, essa torna a muovere le acque dell’oceano – con le parole di Melville – come un violento accesso di febbre contagiosa destinato a turbare l’organismo costituzionalmente sano del mondo atlantico. Per questo, come scrive John Adams nel 1805 quella che il 1776 apre potrebbe essere chiamata “the Age of Folly, Vice, Frenzy, Brutality, Daemons, Buonaparte -…- or the Age of the burning Brand from the Bottomless Pit”. Non può però essere chiamata “the Age of Reason”, perché è l’epoca di Paine: “whether any man in the world has had more influence on its inhabitants or affairs for the last thirty years than Tom Paine” -…- there can be no severer satyr on the age. For such a mongrel between pig and puppy, begotten by a wild boar on a bitch wolf, never before in any age of the world was suffered by the poltroonery of mankind, to run through such a career of mischief. Call it then the Age of Paine”.
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Battistini, Matteo <1979&gt. "Thomas Paine nella trasmissione atlantica della rivoluzione." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2008. http://amsdottorato.unibo.it/819/.

Full text
Abstract:
Call me Ismail. Così inizia notoriamente il celebre romanzo di Herman Melville, Moby Dick. In un altro racconto, ambientato nel 1797, anno del grande ammutinamento della flotta del governo inglese, Melville dedica un breve accenno a Thomas Paine. Il racconto è significativo di quanto – ancora nella seconda metà dell’Ottocento – l’autore di Common Sense e Rights of Man sia sinonimo delle possibilità radicalmente democratiche che l’ultima parte del Settecento aveva offerto. Melville trova in Paine la chiave per dischiudere nel presente una diversa interpretazione della rivoluzione: non come una vicenda terminata e confinata nel passato, ma come una possibilità che persiste nel presente, “una crisi mai superata” che viene raffigurata nel dramma interiore del gabbiere di parrocchetto, Billy Budd. Il giovane marinaio della nave mercantile chiamata Rights of Man mostra un’attitudine docile e disponibile all’obbedienza, che lo rende pronto ad accettare il volere dei superiori. Billy non contesta l’arruolamento forzato nella nave militare. Nonostante il suo carattere affabile, non certo irascibile, l’esperienza in mare sulla Rights of Man rappresenta però un peccato difficile da espiare: il sospetto è più forte della ragionevolezza, specie quando uno spettro di insurrezione continua ad aggirarsi nella flotta di sua maestà. Così, quando, imbarcato in una nave militare della flotta inglese, con un violento pugno Billy uccide l’uomo che lo accusa di tramare un nuovo ammutinamento, il destino inevitabile è quello di un’esemplare condanna a morte. Una condanna che, si potrebbe dire, mostra come lo spettro della rivoluzione continui ad agitare le acque dell’oceano Atlantico. Nella Prefazione Melville fornisce una chiave di lettura per accedere al testo e decifrare il dramma interiore del marinaio: nella degenerazione nel Terrore, la vicenda francese indica una tendenza al tradimento della rivoluzione, che è così destinata a ripetere continuamente se stessa. Se “la rivoluzione si trasformò essa stessa in tirannia”, allora la crisi segna ancora la società atlantica. Non è però alla classica concezione del tempo storico – quella della ciclica degenerazione e rigenerazione del governo – che Melville sembra alludere. Piuttosto, la vicenda rivoluzionaria che ha investito il mondo atlantico ha segnato un radicale punto di cesura con il passato: la questione non è quella della continua replica della storia, ma quella del continuo circolare dello “spirito rivoluzionario”, come dimostra nell’estate del 1797 l’esperienza di migliaia di marinai che tra grida di giubilo issano sugli alberi delle navi i colori britannici da cui cancellano lo stemma reale e la croce, abolendo così d’un solo colpo la bandiera della monarchia e trasformando il mondo in miniatura della flotta di sua maestà “nella rossa meteora di una violenta e sfrenata rivoluzione”. Raccontare la vicenda di Billy riporta alla memoria Paine. L’ammutinamento è solo un frammento di un generale spirito rivoluzionario che “l’orgoglio nazionale e l’opinione politica hanno voluto relegare nello sfondo della storia”. Quando Billy viene arruolato, non può fare a meno di portare con sé l’esperienza della Rights of Man. Su quel mercantile ha imparato a gustare il dolce sapore del commercio insieme all’asprezza della competizione sfrenata per il mercato, ha testato la libertà non senza subire la coercizione di un arruolamento forzato. La vicenda di Billy ricorda allora quella del Paine inglese prima del grande successo di Common Sense, quando muove da un’esperienza di lavoro all’altra in modo irrequieto alla ricerca di felicità – dal mestiere di artigiano all’avventura a bordo di un privateer inglese durante la guerra dei sette anni, dalla professione di esattore fiscale alle dipendenze del governo, fino alla scelta di cercare fortuna in America. Così come Paine rivendica l’originalità del proprio pensiero, il suo essere un autodidatta e le umili origini che gli hanno impedito di frequentare le biblioteche e le accademie inglesi, anche Billy ha “quel tipo e quel grado di intelligenza che si accompagna alla rettitudine non convenzionale di ogni integra creatura umana alla quale non sia ancora stato offerto il dubbio pomo della sapienza”. Così come il pamphlet Rights of man porta alla virtuale condanna a morte di Paine – dalla quale sfugge trovando rifugio a Parigi – allo stesso modo il passato da marinaio sulla Rights of Man porta al processo per direttissima che sentenzia la morte per impiccagione del giovane marinaio. Il dramma interiore di Billy replica dunque l’esito negativo della rivoluzione in Europa: la rivoluzione è in questo senso come un “violento accesso di febbre contagiosa”, destinato a scomparire “in un organismo costituzionalmente sano, che non tarderà a vincerla”. Non viene però meno la speranza: quella della rivoluzione sembra una storia senza fine perché Edward Coke e William Blackstone – i due grandi giuristi del common law inglese che sono oggetto della violenta critica painita contro la costituzione inglese – “non riescono a far luce nei recessi oscuri dell’animo umano”. Rimane dunque uno spiraglio, un angolo nascosto dal quale continua a emergere uno spirito rivoluzionario. Per questo non esistono cure senza effetti collaterali, non esiste ordine senza l’ipoteca del ricorso alla forza contro l’insurrezione: c’è chi come l’ufficiale che condanna Billy diviene baronetto di sua maestà, c’è chi come Billy viene impiccato, c’è chi come Paine viene raffigurato come un alcolizzato e impotente, disonesto e depravato, da relegare sul fondo della storia atlantica. Eppure niente più del materiale denigratorio pubblicato contro Paine ne evidenzia il grande successo. Il problema che viene sollevato dalle calunniose biografie edite tra fine Settecento e inizio Ottocento è esattamente quello del trionfo dell’autore di Common Sense e Rights of Man nell’aver promosso, spiegato e tramandato la rivoluzione come sfida democratica che è ancora possibile vincere in America come in Europa. Sono proprio le voci dei suoi detrattori – americani, inglesi e francesi – a mostrare che la dimensione nella quale è necessario leggere Paine è quella del mondo atlantico. Assumendo una prospettiva atlantica, ovvero ricostruendo la vicenda politica e intellettuale di Paine da una sponda all’altra dell’oceano, è possibile collegare ciò che Paine dice in spazi e tempi diversi in modo da segnalare la presenza costante sulla scena politica di quei soggetti che – come i marinai protagonisti dell’ammutinamento – segnalano il mancato compimento delle speranze aperte dall’esperienza rivoluzionaria. Limitando la ricerca al processo di costruzione della nazione politica, scegliendo di riassumerne il pensiero politico nell’ideologia americana, nella vicenda costituzionale francese o nel contesto politico inglese, le ricerche su Paine non sono riuscite fino in fondo a mostrare la grandezza di un autore che risulta ancora oggi importante: la sua produzione intellettuale è talmente segnata dalle vicende rivoluzionarie che intessono la sua biografia da fornire la possibilità di studiare quel lungo periodo di trasformazione sociale e politica che investe non una singola nazione, ma l’intero mondo atlantico nel corso della rivoluzione. Attraverso Paine è allora possibile superare quella barriera che ha diviso il dibattito storiografico tra chi ha trovato nella Rivoluzione del 1776 la conferma del carattere eccezionale della nazione americana – fin dalla sua origine rappresentata come esente dalla violenta conflittualità che invece investe il vecchio continente – e chi ha relegato il 1776 a data di secondo piano rispetto al 1789, individuando nell’illuminismo la presunta superiorità culturale europea. Da una sponda all’altra dell’Atlantico, la storiografia ha così implicitamente alzato un confine politico e intellettuale tra Europa e America, un confine che attraverso Paine è possibile valicare mostrandone la debolezza. Parlando di prospettiva atlantica, è però necessario sgombrare il campo da possibili equivoci: attraverso Paine, non intendiamo stabilire l’influenza della Rivoluzione americana su quella francese, né vogliamo mostrare l’influenza del pensiero politico europeo sulla Rivoluzione americana. Non si tratta cioè di stabilire un punto prospettico – americano o europeo – dal quale leggere Paine. L’obiettivo non è quello di sottrarre Paine agli americani per restituirlo agli inglesi che l’hanno tradito, condannandolo virtualmente a morte. Né è quello di confermare l’americanismo come suo unico lascito culturale e politico. Si tratta piuttosto di considerare il mondo atlantico come l’unico scenario nel quale è possibile leggere Paine. Per questo, facendo riferimento al complesso filone storiografico dell’ultimo decennio, sviluppato in modo diverso da Bernard Bailyn a Markus Rediker e Peter Linebaugh, parliamo di rivoluzione atlantica. Certo, Paine vede fallire nell’esperienza del Terrore quella rivoluzione che in America ha trionfato. Ciò non costituisce però un elemento sufficiente per riproporre l’interpretazione arendtiana della rivoluzione che, sulla scorta della storiografia del consenso degli anni cinquanta, ma con motivi di fascino e interesse che non sempre ritroviamo in quella storiografia, ha contribuito ad affermare un ‘eccezionalismo’ americano anche in Europa, rappresentando gli americani alle prese con il problema esclusivamente politico della forma di governo, e i francesi impegnati nel rompicapo della questione sociale della povertà. Rompicapo che non poteva non degenerare nella violenza francese del Terrore, mentre l’America riusciva a istituire pacificamente un nuovo governo rappresentativo facendo leva su una società non conflittuale. Attraverso Paine, è infatti possibile mostrare come – sebbene con intensità e modalità diverse – la rivoluzione incida sul processo di trasformazione commerciale della società che investe l’intero mondo atlantico. Nel suo andirivieni da una sponda all’altra dell’oceano, Paine non ragiona soltanto sulla politica – sulla modalità di organizzare una convivenza democratica attraverso la rappresentanza, convivenza che doveva trovare una propria legittimazione nel primato della costituzione come norma superiore alla legge stabilita dal popolo. Egli riflette anche sulla società commerciale, sui meccanismi che la muovono e le gerarchie che la attraversano, mostrando così precise linee di continuità che tengono insieme le due sponde dell’oceano non solo nella circolazione del linguaggio politico, ma anche nella comune trasformazione sociale che investe i termini del commercio, del possesso della proprietà e del lavoro, dell’arricchimento e dell’impoverimento. Con Paine, America e Europa non possono essere pensate separatamente, né – come invece suggerisce il grande lavoro di Robert Palmer, The Age of Democratic Revolution – possono essere inquadrate dentro un singolo e generale movimento rivoluzionario essenzialmente democratico. Emergono piuttosto tensioni e contraddizioni che investono il mondo atlantico allontanando e avvicinando continuamente le due sponde dell’oceano come due estremità di un elastico. Per questo, parliamo di società atlantica. Quanto detto trova conferma nella difficoltà con la quale la storiografia ricostruisce la figura politica di Paine dentro la vicenda rivoluzionaria americana. John Pocock riconosce la difficoltà di comprendere e spiegare Paine, quando sostiene che Common Sense non evoca coerentemente nessun prestabilito vocabolario atlantico e la figura di Paine non è sistemabile in alcuna categoria di pensiero politico. Partendo dal paradigma classico della virtù, legata antropologicamente al possesso della proprietà terriera, Pocock ricostruisce la permanenza del linguaggio repubblicano nel mondo atlantico senza riuscire a inserire Common Sense e Rights of Man nello svolgimento della rivoluzione. Sebbene non esplicitamente dichiarata, l’incapacità di comprendere il portato innovativo di Common Sense, in quella che è stata definita sintesi repubblicana, è evidente anche nel lavoro di Bernard Bailyn che spiega come l’origine ideologica della rivoluzione, radicata nella paura della cospirazione inglese contro la libertà e nel timore della degenerazione del potere, si traduca ben presto in un sentimento fortemente contrario alla democrazia. Segue questa prospettiva anche Gordon Wood, secondo il quale la chiamata repubblicana per l’indipendenza avanzata da Paine non parla al senso comune americano, critico della concezione radicale del governo rappresentativo come governo della maggioranza, che Paine presenta quando partecipa al dibattito costituzionale della Pennsylvania rivoluzionaria. Paine è quindi considerato soltanto nelle risposte repubblicane dei leader della guerra d’indipendenza che temono una possibile deriva democratica della rivoluzione. Paine viene in questo senso dimenticato. La sua figura è invece centrale della nuova lettura liberale della rivoluzione: Joyce Appleby e Isaac Kramnick contestano alla letteratura repubblicana di non aver compreso che la separazione tra società e governo – la prima intesa come benedizione, il secondo come male necessario – con cui si apre Common Sense rappresenta il tentativo riuscito di cogliere, spiegare e tradurre in linguaggio politico l’affermazione del capitalismo. In particolare, Appleby critica efficacemente il concetto d’ideologia proposto dalla storiografia repubblicana, perché presuppone una visione statica della società. L’affermazione del commercio fornirebbe invece quella possibilità di emancipazione attraverso il lavoro libero, che Paine coglie perfettamente promuovendo una visione della società per la quale il commercio avrebbe permesso di raggiungere la libertà senza il timore della degenerazione della rivoluzione nel disordine. Questa interpretazione di Paine individua in modo efficace un aspetto importante del suo pensiero politico, la sua profonda fiducia nel commercio come strumento di emancipazione e progresso. Tuttavia, non risulta essere fino in fondo coerente e pertinente, se vengono prese in considerazione le diverse agende politiche avanzate in seguito alla pubblicazione di Common Sense e di Rights of Man, né sembra reggere quando prendiamo in mano The Agrarian Justice (1797), il pamphlet nel quale Paine mette in discussione la sua profonda fiducia nel progresso della società commerciale. Diverso è il Paine che emerge dalla storiografia bottom-up, secondo la quale la rivoluzione non può più essere ridotta al momento repubblicano o all’affermazione senza tensione del liberalismo: lo studio della rivoluzione deve essere ampliato fino a comprendere quell’insieme di pratiche e discorsi che mirano all’incisiva trasformazione dell’esistente slegando il diritto di voto dalla qualifica proprietaria, perseguendo lo scopo di frenare l’accumulazione di ricchezza nelle mani di pochi con l’intento di ordinare la società secondo una logica di maggiore uguaglianza. Come dimostrano Eric Foner e Gregory Claeys, attraverso Paine è allora possibile rintracciare, sulla sponda americana come su quella inglese dell’Atlantico, forti pretese democratiche che non sembrano riducibili al linguaggio liberale, né a quello repubblicano. Paine viene così sottratto a rigide categorie storiografiche che per troppo tempo l’hanno consegnato tout court all’elogio del campo liberale o al silenzio di quello repubblicano. Facendo nostra la metodologia di ricerca elaborata dalla storiografia bottom-up per tenere insieme storia sociale e storia intellettuale, possiamo allora leggere Paine non solo per parlare di rivoluzione atlantica, ma anche di società atlantica: società e politica costituiscono un unico orizzonte d’indagine dal quale esce ridimensionata l’interpretazione della rivoluzione come rivoluzione esclusivamente politica, che – sebbene in modo diverso – tanto la storiografia repubblicana quanto quella liberale hanno rafforzato, alimentando indirettamente l’eccezionale successo americano contro la clamorosa disfatta europea. Entrambe le sponde dell’Atlantico mostrano una società in transizione: la costruzione della finanza nazionale con l’istituzione del debito pubblico e la creazione delle banche, la definizione delle forme giuridiche che stabiliscono modalità di possesso e impiego di proprietà e lavoro, costituiscono un complesso strumentario politico necessario allo sviluppo del commercio e al processo di accumulazione di ricchezza. Per questo, la trasformazione commerciale della società è legata a doppio filo con la rivoluzione politica. Ricostruire il modo nel quale Paine descrive e critica la società da una sponda all’altra dell’Atlantico mostra come la separazione della società dal governo non possa essere immediatamente interpretata come essenza del liberalismo economico e politico. La lettura liberale rappresenta senza ombra di dubbio un salto di qualità nell’interpretazione storiografica perché spiega in modo convincente come Paine traduca in discorso politico il passaggio da una società fortemente gerarchica come quella inglese, segnata dalla condizione di povertà e miseria comune alle diverse figure del lavoro, a una realtà sociale come quella americana decisamente più dinamica, dove il commercio e le terre libere a ovest offrono ampie possibilità di emancipazione e arricchimento attraverso il lavoro libero. Tuttavia, leggendo The Case of Officers of Excise (1772) e ricostruendo la sua attività editoriale alla guida del Pennsylvania Magazine (1775) è possibile giungere a una conclusione decisamente più complessa rispetto a quella suggerita dalla storiografia liberale: il commercio non sembra affatto definire una qualità non conflittuale del contesto atlantico. Piuttosto, nonostante l’assenza dell’antico ordine ‘cetuale’ europeo, esso investe la società di una tendenza alla trasformazione, la cui direzione, intensità e velocità dipendono anche dall’esito dello scontro politico in atto dentro la rivoluzione. Spostando l’attenzione su figure sociali che in quella letteratura sono di norma relegate in secondo piano, Paine mira infatti a democratizzare la concezione del commercio indicando nell’indipendenza personale la condizione comune alla quale poveri e lavoratori aspirano: per chi è coinvolto in prima persona nella lotta per l’indipendenza, la visione della società non indica allora un ordine naturale, dato e immutabile, quanto una scommessa sul futuro, un ideale che dovrebbe avviare un cambiamento sociale coerente con le diverse aspettative di emancipazione. Senza riconoscere questa valenza democratica del commercio non è possibile superare il consenso come presupposto incontestabile della Rivoluzione americana, nel quale tanto la storiografia repubblicana quanto quella librale tendono a cadere: non è possibile superare l’immagine statica della società americana, implicitamente descritta dalla prima, né andare oltre la visione di una società dinamica, ma priva di gerarchie e oppressione, come quella delineata dalla seconda. Le entusiastiche risposte e le violente critiche in favore e contro Common Sense, la dura polemica condotta in difesa o contro la costituzione radicale della Pennsylvania, la diatriba politica sul ruolo dei ricchi mercanti mostrano infatti una società in transizione lungo linee che sono contemporaneamente politiche e sociali. Dentro questo contesto conflittuale, repubblicanesimo e liberalismo non sembrano affatto competere l’uno contro l’altro per esercitare un’influenza egemone nella costruzione del governo rappresentativo. Vengono piuttosto mescolati e ridefiniti per rispondere alla pretese democratiche che provengono dalla parte bassa della società. Common Sense propone infatti un piano politico per l’indipendenza del tutto innovativo rispetto al modo nel quale le colonie hanno fino a quel momento condotto la controversia con la madre patria: la chiamata della convenzione rappresentativa di tutti gli individui per scrivere una nuova costituzione assume le sembianze di un vero e proprio potere costituente. Con la mobilitazione di ampie fasce della popolazione per vincere la guerra contro gli inglesi, le élite mercantili e proprietarie perdono il monopolio della parola e il processo decisionale è aperto anche a coloro che non hanno avuto voce nel governo coloniale. La dottrina dell’indipendenza assume così un carattere democratico. Paine non impiega direttamente il termine, tuttavia le risposte che seguono la pubblicazione di Common Sense lanciano esplicitamente la sfida della democrazia. Ciò mostra come la rivoluzione non possa essere letta semplicemente come affermazione ideologica del repubblicanesimo in continuità con la letteratura d’opposizione del Settecento britannico, o in alternativa come transizione non conflittuale al liberalismo economico e politico. Essa risulta piuttosto comprensibile nella tensione tra repubblicanesimo e democrazia: se dentro la rivoluzione (1776-1779) Paine contribuisce a democratizzare la società politica americana, allora – ed è questo un punto importante, non sufficientemente chiarito dalla storiografia – il recupero della letteratura repubblicana assume il carattere liberale di una strategia tesa a frenare le aspettative di chi considera la rivoluzione politica come un mezzo per superare la condizione di povertà e le disuguaglianze che pure segnano la società americana. La dialettica politica tra democrazia e repubblicanesimo consente di porre una questione fondamentale per comprendere la lunga vicenda intellettuale di Paine nella rivoluzione atlantica e anche il rapporto tra trasformazione sociale e rivoluzione politica: è possibile sostenere che in America la congiunzione storica di processo di accumulazione di ricchezza e costruzione del governo rappresentativo pone la società commerciale in transizione lungo linee capitalistiche? Questa non è certo una domanda che Paine pone esplicitamente, né in Paine troviamo una risposta esaustiva. Tuttavia, la sua collaborazione con i ricchi mercanti di Philadelphia suggerisce una valida direzione di indagine dalla quale emerge che il processo di costruzione del governo federale è connesso alla definizione di una cornice giuridica entro la quale possa essere realizzata l’accumulazione del capitale disperso nelle periferie dell’America indipendente. Paine viene così coinvolto in un frammentato e dilatato scontro politico dove – nonostante la conclusione della guerra contro gli inglesi nel 1783 – la rivoluzione non sembra affatto conclusa perché continua a muovere passioni che ostacolano la costruzione dell’ordine: leggere Paine fuori dalla rivoluzione (1780-1786) consente paradossalmente di descrivere la lunga durata della rivoluzione e di considerare la questione della transizione dalla forma confederale a quella federale dell’unione come un problema di limiti della democrazia. Ricostruire la vicenda politica e intellettuale di Paine in America permette infine di evidenziare un ambiguità costitutiva della società commerciale dentro la quale il progetto politico dei ricchi mercanti entra in tensione con un’attitudine popolare critica del primo processo di accumulazione che rappresenta un presupposto indispensabile all’affermazione del capitalismo. La rivoluzione politica apre in questo senso la società commerciale a una lunga e conflittuale transizione verso il capitalismo Ciò risulta ancora più evidente leggendo Paine in Europa (1791-1797). Da una sponda all’altra dell’Atlantico, con Rights of Man egli esplicita ciò che in America ha preferito mantenere implicito, pur raccogliendo la sfida democratica lanciata dai friend of Common Sense: il salto in avanti che la rivoluzione atlantica deve determinare nel progresso dell’umanità è quello di realizzare la repubblica come vera e propria democrazia rappresentativa. Tuttavia, il fallimento del progetto politico di convocare una convenzione nazionale in Inghilterra e la degenerazione dell’esperienza repubblicana francese nel Terrore costringono Paine a mettere in discussione quella fiducia nel commercio che la storiografia liberale ha con grande profitto mostrato: il mancato compimento della rivoluzione in Europa trova infatti spiegazione nella temporanea impossibilità di tenere insieme democrazia rappresentativa e società commerciale. Nel contesto europeo, fortemente disgregato e segnato da durature gerarchie e forti disuguaglianze, con The Agrarian Justice, Paine individua nel lavoro salariato la causa del contraddittorio andamento – di arricchimento e impoverimento – dello sviluppo economico della società commerciale. La tendenza all’accumulazione non è quindi l’unica qualità della società commerciale in transizione. Attraverso Paine, possiamo individuare un altro carattere decisivo per comprendere la trasformazione sociale, quello dell’affermazione del lavoro salariato. Non solo in Europa. Al ritorno in America, Paine non porta con sé la critica della società commerciale. Ciò non trova spiegazione esclusivamente nel minor grado di disuguaglianza della società americana. Leggendo Paine in assenza di Paine (1787-1802) – ovvero ricostruendo il modo nel quale dall’Europa egli discute, critica e influenza la politica americana – mostreremo come la costituzione federale acquisisca gradualmente la supremazia sulla conflittualità sociale. Ciò non significa che l’America indipendente sia caratterizzata da un unanime consenso costituzionale. Piuttosto, è segnata da un lungo e tortuoso processo di stabilizzazione che esclude la democrazia dall’immediato orizzonte della repubblica americana. Senza successo, Paine torna infatti a promuovere una nuova sfida democratica come nella Pennsylvania rivoluzionaria degli anni settanta. E’ allora possibile vedere come la rivoluzione atlantica venga stroncata su entrambe le sponde dell’oceano: i grandi protagonisti della politica atlantica che prendono direttamente parola contro l’agenda democratica painita – Edmund Burke, Boissy d’Anglas e John Quincy Adams – spostano l’attenzione dal governo alla società per rafforzare le gerarchie determinate dal possesso di proprietà e dall’affermazione del lavoro salariato. Dentro la rivoluzione atlantica, viene così svolto un preciso compito politico, quello di contribuire alla formazione di un ambiente sociale e culturale favorevole all’affermazione del capitalismo – dalla trasformazione commerciale della società alla futura innovazione industriale. Ciò emerge in tutta evidenza quando sulla superficie increspata dell’oceano Atlantico compare nuovamente Paine: a Londra come a New York. Abbandonando quella positiva visione del commercio come vettore di emancipazione personale e collettiva, nel primo trentennio del diciannovesimo secolo, i lavoratori delle prime manifatture compongono l’agenda radicale che Paine lascia in eredità in un linguaggio democratico che assume così la valenza di linguaggio di classe. La diversa prospettiva politica sulla società elaborata da Paine in Europa torna allora d’attualità, anche in America. Ciò consente in conclusione di discutere quella storiografia secondo la quale nella repubblica dal 1787 al 1830 il trionfo della democrazia ha luogo – senza tensione e conflittualità – insieme con la lineare e incontestata affermazione del capitalismo: leggere Paine nella rivoluzione atlantica consente di superare quell’approccio storiografico che tende a ricostruire la circolazione di un unico paradigma linguistico o di un’ideologia dominante, finendo per chiudere la grande esperienza rivoluzionaria atlantica in un tempo limitato – quello del 1776 o in alternativa del 1789 – e in uno spazio chiuso delimitato dai confini delle singole nazioni. Quello che emerge attraverso Paine è invece una società atlantica in transizione lungo linee politiche e sociali che tracciano una direzione di marcia verso il capitalismo, una direzione affatto esente dal conflitto. Neanche sulla sponda americana dell’oceano, dove attraverso Paine è possibile sottolineare una precisa congiunzione storica tra rivoluzione politica, costruzione del governo federale e transizione al capitalismo. Una congiunzione per la quale la sfida democratica non risulta affatto sconfitta: sebbene venga allontanata dall’orizzonte immediato della rivoluzione, nell’arco di neanche un ventennio dalla morte di Paine nel 1809, essa torna a muovere le acque dell’oceano – con le parole di Melville – come un violento accesso di febbre contagiosa destinato a turbare l’organismo costituzionalmente sano del mondo atlantico. Per questo, come scrive John Adams nel 1805 quella che il 1776 apre potrebbe essere chiamata “the Age of Folly, Vice, Frenzy, Brutality, Daemons, Buonaparte -…- or the Age of the burning Brand from the Bottomless Pit”. Non può però essere chiamata “the Age of Reason”, perché è l’epoca di Paine: “whether any man in the world has had more influence on its inhabitants or affairs for the last thirty years than Tom Paine” -…- there can be no severer satyr on the age. For such a mongrel between pig and puppy, begotten by a wild boar on a bitch wolf, never before in any age of the world was suffered by the poltroonery of mankind, to run through such a career of mischief. Call it then the Age of Paine”.
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Leonesi, Elisa <1981&gt. "Scienza, Tecnica, Politica: Il Problema del Metodo nel Pensiero di Jacopo Aconcio." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2009. http://amsdottorato.unibo.it/1993/1/leonesi_elisa_tesi.pdf.

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Abstract:
The aim of this PhD thesis is to study accurately and in depth the figure and the literary production of the intellectual Jacopo Aconcio. This minor author of the 16th century has long been considered a sort of “enigmatic character”, a profile which results from the work of those who, for many centuries, have left his writing to its fate: a story of constant re-readings and equally incessant oversights. This is why it is necessary to re-read Aconcio’s production in its entirety and to devote to it a monographic study. Previous scholars’ interpretations will obviously be considered, but at the same time an effort will be made to go beyond them through the analysis of both published and manuscript sources, in the attempt to attain a deeper understanding of the figure of this man, who was a Christian, a military and hydraulic engineer and a political philosopher,. The title of the thesis was chosen to emphasise how, throughout the three years of the doctorate, my research concentrated in equal measure and with the same degree of importance on all the reflections and activities of Jacopo Aconcio. My object, in fact, was to establish how and to what extent the methodological thinking of the intellectual found application in, and at the same time guided, his theoretical and practical production. I did not mention in the title the author’s religious thinking, which has always been considered by everyone the most original and interesting element of his production, because religion, from the Reformation onwards, was primarily a political question and thus it was treated by almost all the authors involved in the Protestant movement - Aconcio in the first place. Even the remarks concerning the private, intimate sphere of faith have therefore been analysed in this light: only by acknowledging the centrality of the “problem of politics” in Aconcio’s theories, in fact, is it possible to interpret them correctly. This approach proves the truth of the theoretical premise to my research, that is to say the unity and orderliness of the author’s thought: in every field of knowledge, Aconcio applies the rules of the methodus resolutiva, as a means to achieve knowledge and elaborate models of pacific cohabitation in society. Aconcio’s continuous references to method can make his writing pedant and rather complex, but at the same time they allow for a consistent and valid analysis of different disciplines. I have not considered the fact that most of his reflections appear to our eyes as strongly conditioned by the time in which he lived as a limit. To see in him, as some have done, the forerunner of Descartes’ methodological discourse or, conversely, to judge his religious theories as not very modern, is to force the thought of an author who was first and foremost a Christian man of his own time. Aconcio repeats this himself several times in his writings: he wants to provide individuals with the necessary tools to reach a full-fledged scientific knowledge in the various fields, and also to enable them to seek truth incessantly in the religious domain, which is the duty of every human being. The will to find rules, instruments, effective solutions characterizes the whole of the author’s corpus: Aconcio feels he must look for truth in all the arts, aware as he is that anything can become science as long as it is analysed with method. Nevertheless, he remains a man of his own time, a Christian convinced of the existence of God, creator and governor of the world, to whom people must account for their own actions. To neglect this fact in order to construct a “character”, a generic forerunner, but not participant, of whatever philosophical current, is a dangerous and sidetracking operation. In this study, I have highlighted how Aconcio’s arguments only reveal their full meaning when read in the context in which they were born, without depriving them of their originality but also without charging them with meanings they do not possess. Through a historical-doctrinal approach, I have tried to analyse the complex web of theories and events which constitute the substratum of Aconcio’s reflection, in order to trace the correct relations between texts and contexts. The thesis is therefore organised in six chapters, dedicated respectively to Aconcio’s biography, to the methodological question, to the author’s engineering activity, to his historical knowledge and to his religious thinking, followed by a last section concerning his fortune throughout the centuries. The above-mentioned complexity is determined by the special historical moment in which the author lived. On the one hand, thanks to the new union between science and technique, the 16th century produces discoveries and inventions which make available a previously unthinkable number of notions and lead to a “revolution” in the way of studying and teaching the different subjects, which, by producing a new form of intellectual, involved in politics but also aware of scientific-technological issues, will contribute to the subsequent birth of modern science. On the other, the 16th century is ravaged by religious conflicts, which shatter the unity of the Christian world and generate theological-political disputes which will inform the history of European states for many decades. My aim is to show how Aconcio’s multifarious activity is the conscious fruit of this historical and religious situation, as well as the attempt of an answer to the request of a new kind of engagement on the intellectual’s behalf. Plunged in the discussions around methodus, employed in the most important European courts, involved in the abrupt acceleration of technical-scientific activities, and especially concerned by the radical religious reformation brought on by the Protestant movement, Jacopo Aconcio reflects this complex conjunction in his writings, without lacking in order and consistency, differently from what many scholars assume. The object of this work, therefore, is to highlight the unity of the author’s thought, in which science, technique, faith and politics are woven into a combination which, although it may appear illogical and confused, is actually tidy and methodical, and therefore in agreement with Aconcio’s own intentions and with the specific characters of European culture in the Renaissance. This theory is confirmed by the reading of the Ars muniendorum oppidorum, Aconcio’s only work which had been up till now unavailable. I am persuaded that only a methodical reading of Aconcio’s works, without forgetting nor glorifying any single one, respects the author’s will. From De methodo (1558) onwards, all his writings are summae, guides for the reader who wishes to approach the study of the various disciplines. Undoubtedly, Satan’s Stratagems (1565) is something more, not only because of its length, but because it deals with the author’s main interest: the celebration of doubt and debate as bases on which to build religious tolerance, which is the best method for pacific cohabitation in society. This, however, does not justify the total centrality which the Stratagems have enjoyed for centuries, at the expense of a proper understanding of the author’s will to offer examples of methodological rigour in all sciences. Maybe it is precisely because of the reforming power of Aconcio’s thought that, albeit often forgotten throughout the centuries, he has never ceased to reappear and continues to draw attention, both as a man and as an author. His ideas never stop stimulating the reader’s curiosity and this may ultimately be the best demonstration of their worth, independently from the historical moment in which they come back to the surface.
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Leonesi, Elisa <1981&gt. "Scienza, Tecnica, Politica: Il Problema del Metodo nel Pensiero di Jacopo Aconcio." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2009. http://amsdottorato.unibo.it/1993/.

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Abstract:
The aim of this PhD thesis is to study accurately and in depth the figure and the literary production of the intellectual Jacopo Aconcio. This minor author of the 16th century has long been considered a sort of “enigmatic character”, a profile which results from the work of those who, for many centuries, have left his writing to its fate: a story of constant re-readings and equally incessant oversights. This is why it is necessary to re-read Aconcio’s production in its entirety and to devote to it a monographic study. Previous scholars’ interpretations will obviously be considered, but at the same time an effort will be made to go beyond them through the analysis of both published and manuscript sources, in the attempt to attain a deeper understanding of the figure of this man, who was a Christian, a military and hydraulic engineer and a political philosopher,. The title of the thesis was chosen to emphasise how, throughout the three years of the doctorate, my research concentrated in equal measure and with the same degree of importance on all the reflections and activities of Jacopo Aconcio. My object, in fact, was to establish how and to what extent the methodological thinking of the intellectual found application in, and at the same time guided, his theoretical and practical production. I did not mention in the title the author’s religious thinking, which has always been considered by everyone the most original and interesting element of his production, because religion, from the Reformation onwards, was primarily a political question and thus it was treated by almost all the authors involved in the Protestant movement - Aconcio in the first place. Even the remarks concerning the private, intimate sphere of faith have therefore been analysed in this light: only by acknowledging the centrality of the “problem of politics” in Aconcio’s theories, in fact, is it possible to interpret them correctly. This approach proves the truth of the theoretical premise to my research, that is to say the unity and orderliness of the author’s thought: in every field of knowledge, Aconcio applies the rules of the methodus resolutiva, as a means to achieve knowledge and elaborate models of pacific cohabitation in society. Aconcio’s continuous references to method can make his writing pedant and rather complex, but at the same time they allow for a consistent and valid analysis of different disciplines. I have not considered the fact that most of his reflections appear to our eyes as strongly conditioned by the time in which he lived as a limit. To see in him, as some have done, the forerunner of Descartes’ methodological discourse or, conversely, to judge his religious theories as not very modern, is to force the thought of an author who was first and foremost a Christian man of his own time. Aconcio repeats this himself several times in his writings: he wants to provide individuals with the necessary tools to reach a full-fledged scientific knowledge in the various fields, and also to enable them to seek truth incessantly in the religious domain, which is the duty of every human being. The will to find rules, instruments, effective solutions characterizes the whole of the author’s corpus: Aconcio feels he must look for truth in all the arts, aware as he is that anything can become science as long as it is analysed with method. Nevertheless, he remains a man of his own time, a Christian convinced of the existence of God, creator and governor of the world, to whom people must account for their own actions. To neglect this fact in order to construct a “character”, a generic forerunner, but not participant, of whatever philosophical current, is a dangerous and sidetracking operation. In this study, I have highlighted how Aconcio’s arguments only reveal their full meaning when read in the context in which they were born, without depriving them of their originality but also without charging them with meanings they do not possess. Through a historical-doctrinal approach, I have tried to analyse the complex web of theories and events which constitute the substratum of Aconcio’s reflection, in order to trace the correct relations between texts and contexts. The thesis is therefore organised in six chapters, dedicated respectively to Aconcio’s biography, to the methodological question, to the author’s engineering activity, to his historical knowledge and to his religious thinking, followed by a last section concerning his fortune throughout the centuries. The above-mentioned complexity is determined by the special historical moment in which the author lived. On the one hand, thanks to the new union between science and technique, the 16th century produces discoveries and inventions which make available a previously unthinkable number of notions and lead to a “revolution” in the way of studying and teaching the different subjects, which, by producing a new form of intellectual, involved in politics but also aware of scientific-technological issues, will contribute to the subsequent birth of modern science. On the other, the 16th century is ravaged by religious conflicts, which shatter the unity of the Christian world and generate theological-political disputes which will inform the history of European states for many decades. My aim is to show how Aconcio’s multifarious activity is the conscious fruit of this historical and religious situation, as well as the attempt of an answer to the request of a new kind of engagement on the intellectual’s behalf. Plunged in the discussions around methodus, employed in the most important European courts, involved in the abrupt acceleration of technical-scientific activities, and especially concerned by the radical religious reformation brought on by the Protestant movement, Jacopo Aconcio reflects this complex conjunction in his writings, without lacking in order and consistency, differently from what many scholars assume. The object of this work, therefore, is to highlight the unity of the author’s thought, in which science, technique, faith and politics are woven into a combination which, although it may appear illogical and confused, is actually tidy and methodical, and therefore in agreement with Aconcio’s own intentions and with the specific characters of European culture in the Renaissance. This theory is confirmed by the reading of the Ars muniendorum oppidorum, Aconcio’s only work which had been up till now unavailable. I am persuaded that only a methodical reading of Aconcio’s works, without forgetting nor glorifying any single one, respects the author’s will. From De methodo (1558) onwards, all his writings are summae, guides for the reader who wishes to approach the study of the various disciplines. Undoubtedly, Satan’s Stratagems (1565) is something more, not only because of its length, but because it deals with the author’s main interest: the celebration of doubt and debate as bases on which to build religious tolerance, which is the best method for pacific cohabitation in society. This, however, does not justify the total centrality which the Stratagems have enjoyed for centuries, at the expense of a proper understanding of the author’s will to offer examples of methodological rigour in all sciences. Maybe it is precisely because of the reforming power of Aconcio’s thought that, albeit often forgotten throughout the centuries, he has never ceased to reappear and continues to draw attention, both as a man and as an author. His ideas never stop stimulating the reader’s curiosity and this may ultimately be the best demonstration of their worth, independently from the historical moment in which they come back to the surface.
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Gobetti, Zeno <1981&gt. "Il pensiero politico internazionale di Montesquieu: tra la geopolitica e le relazioni internazionali." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2010. http://amsdottorato.unibo.it/3143/1/Gobetti_Zeno__tesi.pdf.

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Abstract:
La tesi ha mostrato come il pensiero politico di Montesquieu possa costituire un utile riferimento teorico per affrontare il problema della ricontestualizzazione dello studio delle relazioni internazionali. La prima parte del lavoro evidenzia alcuni aspetti del metodo di ricerca e del pensiero politico di Montesquieu. Nel primo capitolo, è stato identificato un metodo di ricerca ed un approccio sociologico nello studio della politica, che rappresenta un precedente rispetto alla fondazione di una scienza politica che si propone di identificare nessi causali tra i fenomeni politici. In particolare, si deve riconoscere a Montesquieu il merito di aver introdotto un tipo di analisi della politica che consideri l’interazione di più fattori tra loro. La complessità del reale può essere spiegata soltanto identificando i rapporti che si formano tra gli elementi della realtà. Quindi è possibile porre dei principi in grado di produrre un ordine conoscibile ed interpretabile di tutti questi elementi. Nel secondo capitolo è stata presentata un’analisi delle tipologie delle forme di governo e del concetto di libertà politica. Questo capitolo ha evidenziato solo alcuni aspetti del pensiero politico di Montesquieu utili alla comprensione del pensiero politico internazionale. In particolare, è stata analizzata la struttura e il ressort di ogni forma di governo sottolineando gli aspetti di corruzione e i relativi processi di mutamento. La seconda parte del lavoro ha affrontato l’analisi di un pensiero politico internazionale ed ha evidenziato la rilevanza di una riflessione geopolitica. Nel terzo capitolo abbiamo mostrato l’emersione di una riflessione su alcuni argomenti di relazioni internazionali, quali il problema della guerra e della pace, il diritto internazionale e l’interdipendenza economica, legandoli alle forme di governo. Quindi sono stati identificati ed analizzati tre modelli di sistema internazionale sottolineando in particolare il nesso con il concetto di società internazionale. Tra questi modelli di sistema internazionale, quello che presenta le caratteristiche più singolari, è certamente il sistema della federazione di repubbliche. Infine, nell’ultimo capitolo, abbiamo evidenziato l’importanza della rappresentazione spaziale del mondo di Montesquieu e l’uso di categorie concettuali e metodi di analisi della geopolitica. In particolare, è stata rilevata l’importanza dell’aspetto dimensionale per la comprensione delle dinamiche di ascesa e declino delle forme di Stato e delle forme di governo. Si è mostrato come non sia possibile ascrivere il pensiero di Montesquieu nella categoria del determinismo geografico o climatico. Al contrario, abbiamo evidenziato come tale pensiero possa essere considerato un precedente di una corrente di pensiero della geopolitica francese definita “possibilismo”. Secondo questa teoria i fattori ambientali, più che esercitare un’azione diretta sul comportamento dell’uomo, agiscono selezionando il campo delle scelte possibili.
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Gobetti, Zeno <1981&gt. "Il pensiero politico internazionale di Montesquieu: tra la geopolitica e le relazioni internazionali." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2010. http://amsdottorato.unibo.it/3143/.

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Abstract:
La tesi ha mostrato come il pensiero politico di Montesquieu possa costituire un utile riferimento teorico per affrontare il problema della ricontestualizzazione dello studio delle relazioni internazionali. La prima parte del lavoro evidenzia alcuni aspetti del metodo di ricerca e del pensiero politico di Montesquieu. Nel primo capitolo, è stato identificato un metodo di ricerca ed un approccio sociologico nello studio della politica, che rappresenta un precedente rispetto alla fondazione di una scienza politica che si propone di identificare nessi causali tra i fenomeni politici. In particolare, si deve riconoscere a Montesquieu il merito di aver introdotto un tipo di analisi della politica che consideri l’interazione di più fattori tra loro. La complessità del reale può essere spiegata soltanto identificando i rapporti che si formano tra gli elementi della realtà. Quindi è possibile porre dei principi in grado di produrre un ordine conoscibile ed interpretabile di tutti questi elementi. Nel secondo capitolo è stata presentata un’analisi delle tipologie delle forme di governo e del concetto di libertà politica. Questo capitolo ha evidenziato solo alcuni aspetti del pensiero politico di Montesquieu utili alla comprensione del pensiero politico internazionale. In particolare, è stata analizzata la struttura e il ressort di ogni forma di governo sottolineando gli aspetti di corruzione e i relativi processi di mutamento. La seconda parte del lavoro ha affrontato l’analisi di un pensiero politico internazionale ed ha evidenziato la rilevanza di una riflessione geopolitica. Nel terzo capitolo abbiamo mostrato l’emersione di una riflessione su alcuni argomenti di relazioni internazionali, quali il problema della guerra e della pace, il diritto internazionale e l’interdipendenza economica, legandoli alle forme di governo. Quindi sono stati identificati ed analizzati tre modelli di sistema internazionale sottolineando in particolare il nesso con il concetto di società internazionale. Tra questi modelli di sistema internazionale, quello che presenta le caratteristiche più singolari, è certamente il sistema della federazione di repubbliche. Infine, nell’ultimo capitolo, abbiamo evidenziato l’importanza della rappresentazione spaziale del mondo di Montesquieu e l’uso di categorie concettuali e metodi di analisi della geopolitica. In particolare, è stata rilevata l’importanza dell’aspetto dimensionale per la comprensione delle dinamiche di ascesa e declino delle forme di Stato e delle forme di governo. Si è mostrato come non sia possibile ascrivere il pensiero di Montesquieu nella categoria del determinismo geografico o climatico. Al contrario, abbiamo evidenziato come tale pensiero possa essere considerato un precedente di una corrente di pensiero della geopolitica francese definita “possibilismo”. Secondo questa teoria i fattori ambientali, più che esercitare un’azione diretta sul comportamento dell’uomo, agiscono selezionando il campo delle scelte possibili.
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Volco, Agustin <1976&gt. "Una modernidad excéntrica: individuo, multitud y libertad en Spinoza." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2010. http://amsdottorato.unibo.it/3144/1/Volco_Agustin_Tesi_Una_modernidad_exc%C3%A9ntrica._Individuo%2C_multitud_y_libertad_en_Spinoza.pdf.

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Abstract:
Este estudio se propone indagar el problema de la relación entre individuo, multitud y libertad en la obra de Spinoza, problema que, es nuestra hipótesis, permite echar luz sobre las alternativas fundamentales que se pusieron en juego en el debate teórico-político de la primera modernidad, y consecuentemente, en la formación de los órdenes políticos secularizados contemporáneos. ¿Cómo es posible la fundación y la conservación de un orden político en estas condiciones de incertidumbre? Más aún: ¿cómo hacer de esta incertidumbre no ya una amenaza, sino la fuerza motriz de un orden político? Estas son algunas de las preguntas que Spinoza responde a partir de una política y una filosofía de la inmanencia y que presentan, para nosotros, el doble interés de una interrogación “histórica” que busca en los orígenes de la modernidad sus posibilidades no transitadas, y “teórico política” en tanto busca en la ontología política spinoziana una forma de interrogar, desde las posibilidades inscriptas en su origen, las encrucijadas de la política moderna. Para llevar adelante esta investigación tomaremos como punto de partida la noción spinoziana de individualidad, buscando comprender sus determinaciones, su especificidad y el modo en que, a partir de ella, resulta posible pensar la "naturaleza humana" y las condiciones de la vida en común. Esta noción de individualidad, sostendremos, implica una crítica moderna de las categorías centrales del proyecto moderno, cuya clave se encuentra justamente en una crítica radical de la concepción moderna de la subjetividad (ya sea en su dimensión individual, como concepción del hombre, o en su dimensión política, como concepción del sujeto soberano). A partir de este desarrollo, daremos tratamiento a la concepción spinoziana de la política, y del que se revela en sus últimos escritos como su actor fundamental: la multitud. Para ello, hemos pretendido poner de relieve la distancia de Spinoza respecto del paradigma de la soberanía estatal desarrollado por Hobbes (y continuado en toda la tradición filosófica del derecho natural, pasando por Locke, Rousseau y Kant) y las consecuencias históricas, políticas e institucionales de tal distancia, así como las posibilidades abiertas a un pensamiento político a partir del registro conceptual abierto por Spinoza.
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Volco, Agustin <1976&gt. "Una modernidad excéntrica: individuo, multitud y libertad en Spinoza." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2010. http://amsdottorato.unibo.it/3144/.

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Abstract:
Este estudio se propone indagar el problema de la relación entre individuo, multitud y libertad en la obra de Spinoza, problema que, es nuestra hipótesis, permite echar luz sobre las alternativas fundamentales que se pusieron en juego en el debate teórico-político de la primera modernidad, y consecuentemente, en la formación de los órdenes políticos secularizados contemporáneos. ¿Cómo es posible la fundación y la conservación de un orden político en estas condiciones de incertidumbre? Más aún: ¿cómo hacer de esta incertidumbre no ya una amenaza, sino la fuerza motriz de un orden político? Estas son algunas de las preguntas que Spinoza responde a partir de una política y una filosofía de la inmanencia y que presentan, para nosotros, el doble interés de una interrogación “histórica” que busca en los orígenes de la modernidad sus posibilidades no transitadas, y “teórico política” en tanto busca en la ontología política spinoziana una forma de interrogar, desde las posibilidades inscriptas en su origen, las encrucijadas de la política moderna. Para llevar adelante esta investigación tomaremos como punto de partida la noción spinoziana de individualidad, buscando comprender sus determinaciones, su especificidad y el modo en que, a partir de ella, resulta posible pensar la "naturaleza humana" y las condiciones de la vida en común. Esta noción de individualidad, sostendremos, implica una crítica moderna de las categorías centrales del proyecto moderno, cuya clave se encuentra justamente en una crítica radical de la concepción moderna de la subjetividad (ya sea en su dimensión individual, como concepción del hombre, o en su dimensión política, como concepción del sujeto soberano). A partir de este desarrollo, daremos tratamiento a la concepción spinoziana de la política, y del que se revela en sus últimos escritos como su actor fundamental: la multitud. Para ello, hemos pretendido poner de relieve la distancia de Spinoza respecto del paradigma de la soberanía estatal desarrollado por Hobbes (y continuado en toda la tradición filosófica del derecho natural, pasando por Locke, Rousseau y Kant) y las consecuencias históricas, políticas e institucionales de tal distancia, así como las posibilidades abiertas a un pensamiento político a partir del registro conceptual abierto por Spinoza.
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Stoica, Irina Mihaela <1979&gt. "Welfare provision in Sweden and the dominant position of the Sap." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2010. http://amsdottorato.unibo.it/3166/1/Irina_Stoica_Tesi.pdf.

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Abstract:
There have been almost fifty years since Harry Eckstein' s classic monograph, A Theory of Stable Democracy (Princeton, 1961), where he sketched out the basic tenets of the “congruence theory”, which was to become one of the most important and innovative contributions to understanding democratic rule. His next work, Division and Cohesion in Democracy, (Princeton University Press: 1966) is designed to serve as a plausibility probe for this 'theory' (ftn.) and is a case study of a Northern democratic system, Norway. What is more, this line of his work best exemplifies the contribution Eckstein brought to the methodology of comparative politics through his seminal article, “ “Case Study and Theory in Political Science” ” (in Greenstein and Polsby, eds., Handbook of Political Science, 1975), on the importance of the case study as an approach to empirical theory. This article demonstrates the special utility of “crucial case studies” in testing theory, thereby undermining the accepted wisdom in comparative research that the larger the number of cases the better. Although not along the same lines, but shifting the case study unit of research, I intend to take up here the challenge and build upon an equally unique political system, the Swedish one. Bearing in mind the peculiarities of the Swedish political system, my unit of analysis is going to be further restricted to the Swedish Social Democratic Party, the Svenska Arbetare Partiet. However, my research stays within the methodological framework of the case study theory inasmuch as it focuses on a single political system and party. The Swedish SAP endurance in government office and its electoral success throughout half a century (ftn. As of the 1991 election, there were about 56 years - more than half century - of interrupted social democratic "reign" in Sweden.) are undeniably a performance no other Social Democrat party has yet achieved in democratic conditions. Therefore, it is legitimate to inquire about the exceptionality of this unique political power combination. Which were the different components of this dominance power position, which made possible for SAP's governmental office stamina? I will argue here that it was the end-product of a combination of multifarious factors such as a key position in the party system, strong party leadership and organization, a carefully designed strategy regarding class politics and welfare policy. My research is divided into three main parts, the historical incursion, the 'welfare' part and the 'environment' part. The first part is a historical account of the main political events and issues, which are relevant for my case study. Chapter 2 is devoted to the historical events unfolding in the 1920-1960 period: the Saltsjoebaden Agreement, the series of workers' strikes in the 1920s and SAP's inception. It exposes SAP's ascent to power in the mid 1930s and the party's ensuing strategies for winning and keeping political office, that is its economic program and key economic goals. The following chapter - chapter 3 - explores the next period, i.e. the period from 1960s to 1990s and covers the party's troubled political times, its peak and the beginnings of the decline. The 1960s are relevant for SAP's planning of a long term economic strategy - the Rehn Meidner model, a new way of macroeconomic steering, based on the Keynesian model, but adapted to the new economic realities of welfare capitalist societies. The second and third parts of this study develop several hypotheses related to SAP's 'dominant position' (endurance in politics and in office) and test them afterwards. Mainly, the twin issues of economics and environment are raised and their political relevance for the party analyzed. On one hand, globalization and its spillover effects over the Swedish welfare system are important causal factors in explaining the transformative social-economic challenges the party had to put up with. On the other hand, Europeanization and environmental change influenced to a great deal SAP's foreign policy choices and its domestic electoral strategies. The implications of globalization on the Swedish welfare system will make the subject of two chapters - chapters four and five, respectively, whereupon the Europeanization consequences will be treated at length in the third part of this work - chapters six and seven, respectively. Apparently, at first sight, the link between foreign policy and electoral strategy is difficult to prove and uncanny, in the least. However, in the SAP's case there is a bulk of literature and public opinion statistical data able to show that governmental domestic policy and party politics are in a tight dependence to foreign policy decisions and sovereignty issues. Again, these country characteristics and peculiar causal relationships are outlined in the first chapters and explained in the second and third parts. The sixth chapter explores the presupposed relationship between Europeanization and environmental policy, on one hand, and SAP's environmental policy formulation and simultaneous agenda-setting at the international level, on the other hand. This chapter describes Swedish leadership in environmental policy formulation on two simultaneous fronts and across two different time spans. The last chapter, chapter eight - while trying to develop a conclusion, explores the alternative theories plausible in explaining the outlined hypotheses and points out the reasons why these theories do not fit as valid alternative explanation to my systemic corporatism thesis as the main causal factor determining SAP's 'dominant position'. Among the alternative theories, I would consider Traedgaardh L. and Bo Rothstein's historical exceptionalism thesis and the public opinion thesis, which alone are not able to explain the half century social democratic endurance in government in the Swedish case.
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Stoica, Irina Mihaela <1979&gt. "Welfare provision in Sweden and the dominant position of the Sap." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2010. http://amsdottorato.unibo.it/3166/.

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Abstract:
There have been almost fifty years since Harry Eckstein' s classic monograph, A Theory of Stable Democracy (Princeton, 1961), where he sketched out the basic tenets of the “congruence theory”, which was to become one of the most important and innovative contributions to understanding democratic rule. His next work, Division and Cohesion in Democracy, (Princeton University Press: 1966) is designed to serve as a plausibility probe for this 'theory' (ftn.) and is a case study of a Northern democratic system, Norway. What is more, this line of his work best exemplifies the contribution Eckstein brought to the methodology of comparative politics through his seminal article, “ “Case Study and Theory in Political Science” ” (in Greenstein and Polsby, eds., Handbook of Political Science, 1975), on the importance of the case study as an approach to empirical theory. This article demonstrates the special utility of “crucial case studies” in testing theory, thereby undermining the accepted wisdom in comparative research that the larger the number of cases the better. Although not along the same lines, but shifting the case study unit of research, I intend to take up here the challenge and build upon an equally unique political system, the Swedish one. Bearing in mind the peculiarities of the Swedish political system, my unit of analysis is going to be further restricted to the Swedish Social Democratic Party, the Svenska Arbetare Partiet. However, my research stays within the methodological framework of the case study theory inasmuch as it focuses on a single political system and party. The Swedish SAP endurance in government office and its electoral success throughout half a century (ftn. As of the 1991 election, there were about 56 years - more than half century - of interrupted social democratic "reign" in Sweden.) are undeniably a performance no other Social Democrat party has yet achieved in democratic conditions. Therefore, it is legitimate to inquire about the exceptionality of this unique political power combination. Which were the different components of this dominance power position, which made possible for SAP's governmental office stamina? I will argue here that it was the end-product of a combination of multifarious factors such as a key position in the party system, strong party leadership and organization, a carefully designed strategy regarding class politics and welfare policy. My research is divided into three main parts, the historical incursion, the 'welfare' part and the 'environment' part. The first part is a historical account of the main political events and issues, which are relevant for my case study. Chapter 2 is devoted to the historical events unfolding in the 1920-1960 period: the Saltsjoebaden Agreement, the series of workers' strikes in the 1920s and SAP's inception. It exposes SAP's ascent to power in the mid 1930s and the party's ensuing strategies for winning and keeping political office, that is its economic program and key economic goals. The following chapter - chapter 3 - explores the next period, i.e. the period from 1960s to 1990s and covers the party's troubled political times, its peak and the beginnings of the decline. The 1960s are relevant for SAP's planning of a long term economic strategy - the Rehn Meidner model, a new way of macroeconomic steering, based on the Keynesian model, but adapted to the new economic realities of welfare capitalist societies. The second and third parts of this study develop several hypotheses related to SAP's 'dominant position' (endurance in politics and in office) and test them afterwards. Mainly, the twin issues of economics and environment are raised and their political relevance for the party analyzed. On one hand, globalization and its spillover effects over the Swedish welfare system are important causal factors in explaining the transformative social-economic challenges the party had to put up with. On the other hand, Europeanization and environmental change influenced to a great deal SAP's foreign policy choices and its domestic electoral strategies. The implications of globalization on the Swedish welfare system will make the subject of two chapters - chapters four and five, respectively, whereupon the Europeanization consequences will be treated at length in the third part of this work - chapters six and seven, respectively. Apparently, at first sight, the link between foreign policy and electoral strategy is difficult to prove and uncanny, in the least. However, in the SAP's case there is a bulk of literature and public opinion statistical data able to show that governmental domestic policy and party politics are in a tight dependence to foreign policy decisions and sovereignty issues. Again, these country characteristics and peculiar causal relationships are outlined in the first chapters and explained in the second and third parts. The sixth chapter explores the presupposed relationship between Europeanization and environmental policy, on one hand, and SAP's environmental policy formulation and simultaneous agenda-setting at the international level, on the other hand. This chapter describes Swedish leadership in environmental policy formulation on two simultaneous fronts and across two different time spans. The last chapter, chapter eight - while trying to develop a conclusion, explores the alternative theories plausible in explaining the outlined hypotheses and points out the reasons why these theories do not fit as valid alternative explanation to my systemic corporatism thesis as the main causal factor determining SAP's 'dominant position'. Among the alternative theories, I would consider Traedgaardh L. and Bo Rothstein's historical exceptionalism thesis and the public opinion thesis, which alone are not able to explain the half century social democratic endurance in government in the Swedish case.
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Andrusca, Andreea <1981&gt. "L'invention de l'Orthodoxie. Religion et Modernité dans le discours nationaliste roumain du XIX-ème et du XX-ème siècles." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2011. http://amsdottorato.unibo.it/3376/1/andrusca_andreea_tesi.pdf.

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Abstract:
Our thesis entitled The Invention of Orthodoxy. Religion and Modernity in Romanian nationalist discourse from the XIXth to the XXth century is intended to be a history of the idea of “Romanianess” which brings together, in a structural as well as in a conceptual dimension, three major themes: Romanian Orthodoxy, Modernity and the Political. Having as premise for the study of the Romanian case the simultaneous genesis of the religious and political communities, from the Middle Ages to Modernity, the purpose of our inquiry is to formulate a theologico-political definition of ‘’Romanian Orthodoxy’’. Thus, within a main theoretical framework that values the contributions of Carl Schmitt, Michel Foucault and Reinhart Koselleck, our analysis of selected texts that go from the 1860’s to the 1940’s tries to answer the question regarding the relationship between Romanian Orthodoxy and Modernity, as well as its reflection upon the political identity and organisation of the Romanian society. Considering the political context of the events that underline our conceptual focus, we consider that the proper answer to our investigation lies within the logic of multiplicity; namely, we refer to a plural Romania which is divided, at the beginning of the XXth century, between Traditionalism and Modernity, between a massive rural, agrarian society and an urban minority elite, striving to single out, in an phenomenological approach, the “Romanian way”. Secondly, we refer to a plural Modernity, which is at the same time social, cultural, religious and political. Thirdly, the logic of multiplicity applies as well in the interpretation of the fractures present within the religious nationalist discourse; namely, the rejection of Orthodoxy during the XIXth century, as it was considered an impediment in Romania’s path to adopting western modernity and later on, starting with the 1930, the restoration of the “Orthodox ethos” as a source of cultural and political values of the Romanian nation.
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Andrusca, Andreea <1981&gt. "L'invention de l'Orthodoxie. Religion et Modernité dans le discours nationaliste roumain du XIX-ème et du XX-ème siècles." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2011. http://amsdottorato.unibo.it/3376/.

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Abstract:
Our thesis entitled The Invention of Orthodoxy. Religion and Modernity in Romanian nationalist discourse from the XIXth to the XXth century is intended to be a history of the idea of “Romanianess” which brings together, in a structural as well as in a conceptual dimension, three major themes: Romanian Orthodoxy, Modernity and the Political. Having as premise for the study of the Romanian case the simultaneous genesis of the religious and political communities, from the Middle Ages to Modernity, the purpose of our inquiry is to formulate a theologico-political definition of ‘’Romanian Orthodoxy’’. Thus, within a main theoretical framework that values the contributions of Carl Schmitt, Michel Foucault and Reinhart Koselleck, our analysis of selected texts that go from the 1860’s to the 1940’s tries to answer the question regarding the relationship between Romanian Orthodoxy and Modernity, as well as its reflection upon the political identity and organisation of the Romanian society. Considering the political context of the events that underline our conceptual focus, we consider that the proper answer to our investigation lies within the logic of multiplicity; namely, we refer to a plural Romania which is divided, at the beginning of the XXth century, between Traditionalism and Modernity, between a massive rural, agrarian society and an urban minority elite, striving to single out, in an phenomenological approach, the “Romanian way”. Secondly, we refer to a plural Modernity, which is at the same time social, cultural, religious and political. Thirdly, the logic of multiplicity applies as well in the interpretation of the fractures present within the religious nationalist discourse; namely, the rejection of Orthodoxy during the XIXth century, as it was considered an impediment in Romania’s path to adopting western modernity and later on, starting with the 1930, the restoration of the “Orthodox ethos” as a source of cultural and political values of the Romanian nation.
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Perez, Zafrilla Pedro Jesus <1981&gt. "La democrazia deliberativa negli Stati Uniti: teoria e prassi." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2011. http://amsdottorato.unibo.it/3433/1/Perez_Zafrilla_Pedro_Jesus_Tesi.pdf.

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Abstract:
This dissertation aims to analyse the development of the deliberative model of democracy in the U.S., both in an empirical and theoretical levels, from its origins in the eighties of the last century until now. In the first part we study the political and historical elements that build the crisis of the Liberal political system in the seventies in the U.S. and its effects on the political behaviour of citizens. In the second part we discuss the origins and development of the deliberative theory of democracy, its main authors, approaches and elements. The key aspect of this model of democracy is to reverse the apathy and strength the political participation of citizens through public deliberation. In the last part we expose the practical level of the deliberative democracy: how this theory of has been put into practice in the American political domain. We describe the main projects of deliberative democracy rose from civil society from the eighties until today. Finally, we expose the James Fishkin’s proposal of deliberative poll. This is the link between the empirical and theoretical levels of the deliberative model of democracy.
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Perez, Zafrilla Pedro Jesus <1981&gt. "La democrazia deliberativa negli Stati Uniti: teoria e prassi." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2011. http://amsdottorato.unibo.it/3433/.

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Abstract:
This dissertation aims to analyse the development of the deliberative model of democracy in the U.S., both in an empirical and theoretical levels, from its origins in the eighties of the last century until now. In the first part we study the political and historical elements that build the crisis of the Liberal political system in the seventies in the U.S. and its effects on the political behaviour of citizens. In the second part we discuss the origins and development of the deliberative theory of democracy, its main authors, approaches and elements. The key aspect of this model of democracy is to reverse the apathy and strength the political participation of citizens through public deliberation. In the last part we expose the practical level of the deliberative democracy: how this theory of has been put into practice in the American political domain. We describe the main projects of deliberative democracy rose from civil society from the eighties until today. Finally, we expose the James Fishkin’s proposal of deliberative poll. This is the link between the empirical and theoretical levels of the deliberative model of democracy.
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Soto, Carrasco David <1981&gt. "La Ragione violenta di Ramiro Ledesma Ramos. Fascismo e pensiero conservatore in Spagna." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2012. http://amsdottorato.unibo.it/4385/1/SotoCarrasco_David_tesi.pdf.

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Abstract:
Aunque esta tesis puede leerse desde diferentes perspectivas, tiene una voluntad fundamental: explicar, desde la metodología propia de la historia conceptual, la racionalidad específica del llamado fascismo español. Centra su interés en la figura de Ramiro Ledesma Ramos (1905-1936), fundador del primer movimiento fascista español. Ledesma ideó un proyecto de modernización de España que sólo podía pasar por la organización de un Estado total. Trató de crear un movimiento de masas de corte fascista con capacidad para fundar un Estado total capaz de ser una alternativa viable al liberalismo republicano y al socialismo. El fascismo español emergerá como una experiencia temporal propia de la modernidad. Buscará revitalizar y acelerar un proceso, el moderno, que a la luz de los jóvenes exaltados de principios de siglo se percibía como agotado y decadente. El planteamiento de Ledesma brotaba de la necesidad de combatir aquellas presuntas fuerzas degenerativas (liberalismo, comunismo, conservadurismo, etc.) de la historia contemporánea española para erigir una nueva modernidad basada en el renacimiento de la nación. Al mismo tiempo, se pretende poner en relieve la eficacia de la acción histórica planteada por el pensamiento reaccionario español. Bajo sus coordenadas, la nación jamás desarrollaría los rasgos sublimados de la política moderna europea. Jamás abandonó los pretendidos órdenes del derecho natural del clasicismo católico que, en última instancia, limitaban la potencia absoluta de cualquier soberano político. Esta particularidad histórica, arrastrada desde la primera modernidad, impedirá con obstinación cualquier oleada revolucionaria que supusiera la autonomización de la esfera política y por tanto, la instauración de un poder totalitario. De hecho, cuando se instauré la dictadura del Franco, a lo más que se llegaría, sería a un Estado mínimo, que bajo los presupuestos del tradicionalismo, dejaba a su suerte las dinámicas económicas.
Although the different perspectives this thesis could be read, it has a fundamental willing: explains, from the conceptual history owns methodology, the specific rationality of Spanish fascism. Focusing its interest in Ramiro Ledesma Ramos (1905-1936), he was the founder of the first Spanish fascist movement. Ledesma devised a modernization project of Spain that could only go through the organization of a total state. He tries to create a fascist mass movement with the capacity of founding a total state able to be an alternative to the republican liberalism and socialism. Spanish fascism emerges as a temporal experience typical of modernity. It would search to revitalize and accelerate a process, the modern one. This process was seen in the light of the angry Young of the beginnings of century which seen that as decadent and exhausted. Ledesma's approach arose from the need to combat those alleged degenerative forces (liberalism, communism, conservatism, etc.). Of contemporary Spanish history to erect a new modernity based on the rebirth of the nation. At the same time, it is intended to highlight the effectiveness of historical action raised by the Spanish reactionary thought. Under its coordinates, the nation never develops the sublimated features of European modern politics. He never abandoned the alleged orders of Catholic natural law of classicism that ultimately limited the absolute power of any political sovereign. This historical particularity, dragged from the first modernity, obstinately prevent any revolutionary wave that would cause the autonomy of the political sphere and thus the establishment of a totalitarian power. In fact, when it will be establish the dictatorship of Franco, the result would be a minimal state under the assumptions of traditionalism which left their own economic dynamics.
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Soto, Carrasco David <1981&gt. "La Ragione violenta di Ramiro Ledesma Ramos. Fascismo e pensiero conservatore in Spagna." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2012. http://amsdottorato.unibo.it/4385/.

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Abstract:
Aunque esta tesis puede leerse desde diferentes perspectivas, tiene una voluntad fundamental: explicar, desde la metodología propia de la historia conceptual, la racionalidad específica del llamado fascismo español. Centra su interés en la figura de Ramiro Ledesma Ramos (1905-1936), fundador del primer movimiento fascista español. Ledesma ideó un proyecto de modernización de España que sólo podía pasar por la organización de un Estado total. Trató de crear un movimiento de masas de corte fascista con capacidad para fundar un Estado total capaz de ser una alternativa viable al liberalismo republicano y al socialismo. El fascismo español emergerá como una experiencia temporal propia de la modernidad. Buscará revitalizar y acelerar un proceso, el moderno, que a la luz de los jóvenes exaltados de principios de siglo se percibía como agotado y decadente. El planteamiento de Ledesma brotaba de la necesidad de combatir aquellas presuntas fuerzas degenerativas (liberalismo, comunismo, conservadurismo, etc.) de la historia contemporánea española para erigir una nueva modernidad basada en el renacimiento de la nación. Al mismo tiempo, se pretende poner en relieve la eficacia de la acción histórica planteada por el pensamiento reaccionario español. Bajo sus coordenadas, la nación jamás desarrollaría los rasgos sublimados de la política moderna europea. Jamás abandonó los pretendidos órdenes del derecho natural del clasicismo católico que, en última instancia, limitaban la potencia absoluta de cualquier soberano político. Esta particularidad histórica, arrastrada desde la primera modernidad, impedirá con obstinación cualquier oleada revolucionaria que supusiera la autonomización de la esfera política y por tanto, la instauración de un poder totalitario. De hecho, cuando se instauré la dictadura del Franco, a lo más que se llegaría, sería a un Estado mínimo, que bajo los presupuestos del tradicionalismo, dejaba a su suerte las dinámicas económicas.
Although the different perspectives this thesis could be read, it has a fundamental willing: explains, from the conceptual history owns methodology, the specific rationality of Spanish fascism. Focusing its interest in Ramiro Ledesma Ramos (1905-1936), he was the founder of the first Spanish fascist movement. Ledesma devised a modernization project of Spain that could only go through the organization of a total state. He tries to create a fascist mass movement with the capacity of founding a total state able to be an alternative to the republican liberalism and socialism. Spanish fascism emerges as a temporal experience typical of modernity. It would search to revitalize and accelerate a process, the modern one. This process was seen in the light of the angry Young of the beginnings of century which seen that as decadent and exhausted. Ledesma's approach arose from the need to combat those alleged degenerative forces (liberalism, communism, conservatism, etc.). Of contemporary Spanish history to erect a new modernity based on the rebirth of the nation. At the same time, it is intended to highlight the effectiveness of historical action raised by the Spanish reactionary thought. Under its coordinates, the nation never develops the sublimated features of European modern politics. He never abandoned the alleged orders of Catholic natural law of classicism that ultimately limited the absolute power of any political sovereign. This historical particularity, dragged from the first modernity, obstinately prevent any revolutionary wave that would cause the autonomy of the political sphere and thus the establishment of a totalitarian power. In fact, when it will be establish the dictatorship of Franco, the result would be a minimal state under the assumptions of traditionalism which left their own economic dynamics.
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Cento, Michele <1984&gt. "Una grande narrazione del capitalismo: potere e scienze sociali nel pensiero politico di Daniel Bell." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2013. http://amsdottorato.unibo.it/5473/1/Cento_Michele_Tesi.pdf.

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Abstract:
Questa tesi punta a ricostruire il pensiero politico di Bell tra il secondo dopoguerra e la metà degli anni Settanta. In tale arco cronologico, la riflessione politica di Bell si profila, per usare una formula di Jean-François Lyotard, come una «grande narrazione» del capitalismo. Nel complesso, cioè, l’opera di Bell appare come una storia sociologica del capitalismo, che nella fine delle ideologie registra l’apogeo del fordismo e, in seguito, ne mette in luce le trasformazioni in senso post-industriale, indagando le ricadute che tali mutamenti implicano sul piano dei rapporti di potere e della legittimazione del sistema. Nell’ottica di Bell, pertanto, il capitalismo non costituisce soltanto un sistema economico, ma la forma specifica attraverso cui si dispiega la società nel suo complesso, attivando una serie di rapporti di potere mediante i quali gli individui vengono coordinati e subordinati. Una siffatta concezione del capitalismo agisce immediatamente la questione del potere e solleva un interrogativo a esso connesso: «che cosa tiene insieme una società?». Una domanda che attraversa la traiettoria intellettuale di Bell e, sia pure declinata mediante una terminologia sociologica, riflette in realtà l’ambizione delle scienze sociali di farsi teoria politica. Esse si presentano quindi come teoria politica della modernità, nella misura in cui distinguono il potere sociale dal potere politico e, al tempo stesso, instaurano tra i due poli una tensione dialettica produttiva. Mettendo a fuoco la concettualizzazione del potere nell’opera di Bell si analizzeranno le mutazioni nel rapporto tra Stato e società negli Stati Uniti durante la Golden Age del capitalismo. In particolare, si metterà in luce nella grande narrazione di Bell l’ascesa e il declino di un ordine istituzionale che, alla metà degli anni Settanta, appare percorso da molteplici tensioni politiche e sociali che preannunciano l’avvento dell’età globale e il bisogno di una nuova “scala” di governo.
This dissertations deals with Daniel Bell’s political thought between the post-war era and the Seventies. During these years, Bell’s political reflection appears to be, to say it in the words of Jean-François Lyotard, a «grand narrative» of capitalism. Overall, Bell’s work is a sociological history of capitalism. It points out the height of fordism by assuming the end of ideology, and then sheds light on the post-industrial transformations, looking at the effects produced on power relations and the legitimacy of the socio-political system. In Bell’s view, capitalism is not only an economic system, but a complex social system which places individuals in the power structure by means of subordination and coordination. «What holds a society together?» is the question that go trough the whole trajectory of his reflection. It looks a sociological question, but actually it is a political question, because the order of society depends on the legitimacy of obligation relationships. The link between politics and sociology marks Bell’s thought and shows how social sciences are assumed to be the political theory of modernity: they analyze the political side of social relations as well as the social element inherent to the workings of political institutions. In other words, I look at the way in which Bell, «the sociologist of capitalism» as «The Economist» put it, distinguishes between social power and political power and then makes them interact. Focusing on Bell’s view of power I analyze the transformations occurred in the relationship between State and society in the US during the so-called Golden Age of Capitalism. Particularly, drawing the trajectory of this «grand narrative» of capitalism up to mid-seventies, I highlight that Bell recognizes the coming of a global age, full of political and social strains, and the need of a new institutional scale to cope with them.
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Cento, Michele <1984&gt. "Una grande narrazione del capitalismo: potere e scienze sociali nel pensiero politico di Daniel Bell." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2013. http://amsdottorato.unibo.it/5473/.

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Abstract:
Questa tesi punta a ricostruire il pensiero politico di Bell tra il secondo dopoguerra e la metà degli anni Settanta. In tale arco cronologico, la riflessione politica di Bell si profila, per usare una formula di Jean-François Lyotard, come una «grande narrazione» del capitalismo. Nel complesso, cioè, l’opera di Bell appare come una storia sociologica del capitalismo, che nella fine delle ideologie registra l’apogeo del fordismo e, in seguito, ne mette in luce le trasformazioni in senso post-industriale, indagando le ricadute che tali mutamenti implicano sul piano dei rapporti di potere e della legittimazione del sistema. Nell’ottica di Bell, pertanto, il capitalismo non costituisce soltanto un sistema economico, ma la forma specifica attraverso cui si dispiega la società nel suo complesso, attivando una serie di rapporti di potere mediante i quali gli individui vengono coordinati e subordinati. Una siffatta concezione del capitalismo agisce immediatamente la questione del potere e solleva un interrogativo a esso connesso: «che cosa tiene insieme una società?». Una domanda che attraversa la traiettoria intellettuale di Bell e, sia pure declinata mediante una terminologia sociologica, riflette in realtà l’ambizione delle scienze sociali di farsi teoria politica. Esse si presentano quindi come teoria politica della modernità, nella misura in cui distinguono il potere sociale dal potere politico e, al tempo stesso, instaurano tra i due poli una tensione dialettica produttiva. Mettendo a fuoco la concettualizzazione del potere nell’opera di Bell si analizzeranno le mutazioni nel rapporto tra Stato e società negli Stati Uniti durante la Golden Age del capitalismo. In particolare, si metterà in luce nella grande narrazione di Bell l’ascesa e il declino di un ordine istituzionale che, alla metà degli anni Settanta, appare percorso da molteplici tensioni politiche e sociali che preannunciano l’avvento dell’età globale e il bisogno di una nuova “scala” di governo.
This dissertations deals with Daniel Bell’s political thought between the post-war era and the Seventies. During these years, Bell’s political reflection appears to be, to say it in the words of Jean-François Lyotard, a «grand narrative» of capitalism. Overall, Bell’s work is a sociological history of capitalism. It points out the height of fordism by assuming the end of ideology, and then sheds light on the post-industrial transformations, looking at the effects produced on power relations and the legitimacy of the socio-political system. In Bell’s view, capitalism is not only an economic system, but a complex social system which places individuals in the power structure by means of subordination and coordination. «What holds a society together?» is the question that go trough the whole trajectory of his reflection. It looks a sociological question, but actually it is a political question, because the order of society depends on the legitimacy of obligation relationships. The link between politics and sociology marks Bell’s thought and shows how social sciences are assumed to be the political theory of modernity: they analyze the political side of social relations as well as the social element inherent to the workings of political institutions. In other words, I look at the way in which Bell, «the sociologist of capitalism» as «The Economist» put it, distinguishes between social power and political power and then makes them interact. Focusing on Bell’s view of power I analyze the transformations occurred in the relationship between State and society in the US during the so-called Golden Age of Capitalism. Particularly, drawing the trajectory of this «grand narrative» of capitalism up to mid-seventies, I highlight that Bell recognizes the coming of a global age, full of political and social strains, and the need of a new institutional scale to cope with them.
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50

Cadeddu, Francesca <1985&gt. "Democrazia e cattolicesimo negli Stati Uniti. La libertà di religione e il pensiero di John Courtney Murray." Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2013. http://amsdottorato.unibo.it/5719/1/Francesca_Cadeddu_Tesi.pdf.

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Abstract:
L'elaborato affronta il pensiero di John Courtney Murray dal punto di vista teologico e politico, sottolineandone le influenze esterne ai circoli intellettuali cattolici e la particolare rilevanza per l'integrazione della comunità cattolica nella società statunitense.
This work analyses the thought of John Courtney Murray from the political and theological perspective. It focuses on the influences received by the jesuit from non-Catholic intellectual circles and the relevance for the integration of the Catholic community in the American society.
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